NAPOLI – Matteo Massagrande è uno dei maggiori esponenti della nuova arte figurativa italiana. Nei suoi dipinti rappresenta stanze piene di echi lontani, voci dimenticate, ricordi e nostalgia, ombre e nebbie, un passato che si rifiuta di essere dimenticato. I suoi interni sono luoghi abbandonati, abitati da una sola e vera protagonista: la luce. Una luce morbida, torbida, polverosa e fluttuante, che alcune volte entra prepotentemente dalle enormi finestre che si aprono su immensi giardini primaverili, altre volte si insinua invece delicatamente attraverso le fessure. Lei abita quelle stanze, trasformando il loro vuoto in presenza intensa e vivida. Come dice l’artista: “L’assenza non è il contrario della presenza, ma piuttosto un luogo senza fastidi o distrazioni. Una condizione fondamentale per scoprire l’essenza nascosta. Un presente, dove il pensiero può raggiungere la sua massima forza: la creazione”.
Qualche tempo fa Romano Guardini affermava: “Io non rendo giustizia all’opera d’arte se la ‘gusto’, ma se rivivo l’incontro dell’artista creatore con l’oggetto”. È una constatazione molto vera: per capire la bellezza di un’opera non basta l’attimo di meraviglia che ci pervade davanti ad un capolavoro. Bisogna tentare un processo di immedesimazione con l’artista che l’ha realizzato. È nel momento dell’incontro con l’oggetto, come scrive Guardini, che accade qualcosa di inatteso. È quell’attimo, che possiamo inseguire con l’immaginazione, in cui “lo sguardo palpita”. L’arte è certamente terreno privilegiato per l’esperienza della meraviglia, ma il primo a sperimentarla è l’artista stesso. È il suo sguardo che va cercato.
L’arte di oggi ha infatti un tasso di problematicità e di negatività così alto da rendere a prima vista arduo rintracciare segni di meraviglia e di sublime. Ma come suggerisce Guardini, per capire la verità di un’opera si deve andare oltre l’impressione dettata dal nostro gusto. Sarebbe anche abbastanza semplice, del resto, rintracciare nei percorsi di tanti artisti di oggi una tensione verso obiettivi che ci riempiono di stupore, per l’arditezza e anche per la capacità di coinvolgimento. Come fare a spiegare un’opera di Van Gogh senza conoscerne le trame ardite della sua vita?
“Amo i luoghi abbandonati, perché mi parlano di vite passate”. Incanta immaginare cosa sia accaduto in quei posti e piace immaginare quali voci e quali vite abbiano riempito stanze di case rimaste solo involucri. Il suo stile è improntato all’iperrealismo. Protagonisti la luce, le mattonelle. gli scorci di paesaggi che si intravedono dalle finestre e il senso di silenzio che si percepisce.
Molto belle e suggestive queste stanze, ville e dimore abbandonate. Queste opere sono bellissime, fanno venire in mente la frase del filosofo Heidegger: “Qui poeticamente abita l’uomo”.
Gli interni delle case affascinano e si cerca di percepire il vissuto e di immaginare. A volte però porta tristezza e inquietudine. Riprendendo ciò che diceva l’artista l’assenza non è mancanza di presenza; visitando certe opere del Massagrande si resta allibiti di come la memoria, il pensiero di certi luoghi sia essa stessa presenza. Conoscere un’opera d’arte, riconoscerla tale ha, quindi, la sua premessa nell’impatto iniziale con l’opera ma necessita che lo spettatore ci si immerga, si confronti, si immedesimi in tutta la sua completezza che nasce inesorabilmente dal cuore e dall’idea dell’autore. Solo così, e questo vale per ogni cosa, è possibile amare e conoscere non solo un’opera ma tutto il nostro esistere.
Innocenzo Calzone
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