ROMA – Si chiamano bianche perché non c’è un movente ma, a ben guardare, le cause di tante morti sul lavoro sono tutte identificabili e chiare. Esse vanno dal tentativo da parte delle imprese di risparmiare sulla manodopera alla fretta di terminare i lavori e correre verso nuovi redditizi appalti. Sono tutti qui – e non sono pochi né futili – i motivi di una strage che si ripete ogni anno con numeri da bollettino di guerra. Nel 2021 sono stati in 1404 a perdere la vita sul lavoro, il 18 per cento in più rispetto all’anno precedente. La classifica vede la Lombardia al primo posto con 78 deceduti, segue la Campania con 70, 55 in Toscana, 53 in Emilia Romagna, 53 in Piemonte, 51 in Veneto, 40 nel Lazio, 34 in Calabria, 32 in Puglia, 30 in Sicilia, 28 in Abruzzo, 24 in Trentino Alto Adige, 22 nelle Marche, 15 in Friuli Venezia Giulia, 15 in Sardegna, 9 in Umbria, 9 in Basilicata, 7 in Liguria e 3 in Valle d’Aosta.
Tutti casi passati pressochè sotto silenzio dalla stampa perché ormai facenti parte di una triste routine quotidiana cui la politica risponde con generici inviti alla vigilanza che, è vero, dovrebbe essere più capillare ma in ogni caso non basterebbe a fermare questa strage continua. Tra tante notizie e commenti ripetitivi, ormai appiattiti sul demagogico slogan “più controlli, più prevenzione”, si è evidenziato ed ha fatto scalpore, invece, il caso dello studente di 18 anni rimasto ucciso pochi giorni fa dal crollo di una barra metallica durante uno stage di alternanza scuola-lavoro, in azienda. Una morte bianca anche questa, ancor più bianca delle altre perché avvenuta mentre quel ragazzo era nell’età in cui si studia per formarsi come persone, ci si istruisce prima di dedicarsi a quel lavoro che darà il pane per vivere. La scuola non può alternarsi con il lavoro e per impararlo, quest’ultimo, ci vogliono tanta attenzione nonché perizia.
Non c’è movente in questa morte, quindi, ma neanche una giustificazione per una politica che non riconosce più il valore della scuola in sé ma le delega il battesimo dei giovani nell’ingranaggio del guadagno di cui solo pochi di loro diverranno manovratori e di cui la morte bianca è il comune denominatore. Questo episodio, quindi, se annoverato tra gli altri, fa ancor più riflettere su cosa sia diventato oggi il lavoro e sull’impotenza del progresso, che non è riuscito a modificare i principi dell’economia dai tempi antichi, quando era legale la schiavitù, ad oggi. Perché se sono tante ogni anno le morti bianche, la causa è sì nei controlli insufficienti da parte degli organi preposti, ma soprattutto nell’impossibilità di avere un quadro chiaro di chi chiede e chi dà manodopera, del rapporto intercorrente tra titolare e operaio, di un mondo del lavoro che, oggi ancora di più dopo la pandemia, cresciuto grazie ai vari interventi e agli incentivi del governo, è diventato sempre più “nero”.
E’ un lavoro, quello di cui si parla, dove la voce “guadagno” cresce in modo proporziale allo sfruttamento degli operai, alla fretta di concludere e al risparmio su macchinari e materiali che sono sempre più richiesti e insufficienti a soddisfare le esigenze e i tempi di una ripresa velocissima. E’ per questo che i decessi, già troppi in ogni epoca, nell’ultimo anno sono aumentati. La mole di appalti rimessa in moto con gli incentivi per il Covid specialmente nell’edilizia possono spiegare gli incidenti mortali in questo ultimo anno ma il risultato è sempre quello: sono troppe le vittime immolate su quell’altare. Prevenzione e formazione sono scarse, è vero, e i controlli anche ma esistono i meandri della burocrazia e dei soldi dove nessuna vigilanza può arrivare. Primo perché il lavoro spesso è nero, non contrattualizzato, e sfugge alle certificazioni necessarie, poi perché dopo il Covid e la ripresa economica le ore lavorate sono aumentate come sono aumentati i lavoratori, di cui non si conosce più nemmeno il numero effettivo.
In questa nebulosa, pertanto, su cui la politica sembra non aver nessuna voglia di fare luce, ci sarebbe bisogno di una nuova mentalità alla base dell’economia e dell’organizzazione del lavoro, il cui primo obiettivo non fosse quello economico ma quello umano. E questo è rappresentato da chi produce lavoro – l’operaio che troppe volte cade da un ponteggio o rimane schiacciato da una pressa – e per questo non deve subirlo ma dovrebbe essere il primo a beneficiarne. Invece ne è ancora la vittima.
Gloria Zarletti
Lascia un commento