ROMA – Lo riconosco. Mi sistemo meglio gli occhiali per mettere a fuoco quello che da lontano mi sembra una strana coincidenza. Attraverso la strada e, sopravvissuto per pura fortuna al caos delle macchine, guadagno il marciapiede di fronte e mi fermo a bocca davanti al manifesto… Vedo Mongolo, Mammolo, Ottusangolo: così mi chiamano, gli altri.
La mamma mi ha spiegato che io ho gli occhi come quelli delle steppe: stretti per non far uscire le lacrime, miopi per non vedere il male. I miei compagni dicono che assomiglio a Gongolo: chissà se è perché sono sempre felice. Quando mi chiamano Ottusangolo ridono forte e io mi imbroncio un po’. La “mia” prof mi fa colorare bei disegni e mi insegna ad allacciarmi le scarpe. Mi dice che ho pensieri semplici, che mi meraviglio per poco e sorrido per niente. Mi dice pure che ho sentimenti genuini e non conosco il rancore, anche se non capisco bene cosa significa la parola, allora mi dice che è una cosa bella riservata solo a pochi, agli speciali come me.
Amo i miei nonni, mio fratello e il mio cane. Amo i miei compagni anche se ogni tanto mi fanno brutti scherzi come quella volta che li ho invitati alla festa del mio compleanno e nessuno si è presentato. La mamma piangeva e papà sembrava nervoso, io ho mangiato lo stesso la torta anche se ero triste.
Mongolo è intelligente dice la nonna, Mongolo è gentile dice la zia. “Mongolo è scemo” c’è scritto sul manifesto attaccato al muro della scuola e io, che finalmente ho imparato a leggere, ho capito che Mongolo non è una cosa bella e dai miei occhi stretti, ora, escono lacrime e il mio cuore batte come un tamburo stonato. Io, intanto, ho dimenticato il mio nome.
Tania Barcellona
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