TARANTO – Un vecchio pescatore potrebbe insegnarci che, se si vuole agguantare qualcosa che si muove, conviene star fermi; mentre, per afferrare ciò che è immobile, occorre attivarsi. Nella sua mente scorrerebbero le immagini di reti da posta, nasse, lenze palangari (indicati tecnicamente come attrezzi “passivi”) con cui catturava pesci, crostacei, polpi e seppie, mentre altri suoi colleghi, armati di draghe manuali (definiti attrezzi “attivi”), più a riva, raccoglievano ostriche, vongole, arselle, tartufi o anche spugne. Il vecchio pescatore, è evidente, non ama né le reti da traino né le sciabiche da natante e sopporta a malapena le sciabiche da spiaggia. Lui preferisce l’adrenalina della cattura alla ripetitiva piattezza della raccolta. Ignora, forse, che l’uomo primitivo catturava le prede sia con attrezzi passivi che attivi e raccoglieva ciò che di commestibile trovava: frutta, tuberi ma anche ostriche e vongole. Catturava e raccoglieva soltanto, almeno fino a quando, all’incirca diecimila anni fa, scoprì che poteva domesticare piante e animali: agricoltura e zootecnia nacquero allora.
La domesticazione di pesci e crostacei è storia recentissima, ma è frequente leggere di allevamenti di pesci o molluschi bivalvi risalenti all’epoca dei faraoni: niente di più falso. L’equivoco nasce dalla confusione che si fa tra “allevamento” e “stoccaggio”: nell’antichità – probabilmente più in età romana che ai tempi della regina Hatshepsut (1.700 a.C.) come qualcuno vorrebbe – si era in grado di stabulare, in vasche con acqua circolante o in mare, alcune specie di pesci o i molluschi bivalvi di maggior pregio (ostriche) provenienti da attività di pesca, ma la stabulazione nulla ha a che vedere con l’allevamento. E allora? Quando nasce, per esempio, la mitilicoltura? E dove, come e perché? Nessuna certezza ma la documentazione più significativa riguarda Taranto ed il suo Mar Piccolo.
Con il termine dialettale siòne, che deriva dal greco σημεῖον (semeion, cioè segno), i pescatori tarantini indicano un riferimento topografico che, allineato con altri siòni, consenta loro il recupero di una rete da posta o, più spesso, di una nassa: un sistema semplice, economico e assai preciso per stabilire il “punto – nave” quando si opera sottocosta. Come siòni vengono in genere utilizzati una torre d’avvistamento o un campanile o una casa o un grande albero, tuttavia, in alcune particolari circostanze, ci si può arrangiare con dei semplici pali, in legno di quercia o di castagno e diametro di circa 20 cm, infissi nel basso fondale melmoso: una pratica che divenne corrente già verso la fine del 1° millennio dopo Cristo. Tra l’886 e il 912 d.C., infatti, l’imperatore bizantino Leone VI il Saggio promulgò cinque novellae (leggi) che, con il nobile intento di regolamentare la pesca del tonno e dirimere le violente liti tra pescatori (decretando in tal modo la nascita delle tonnare), finirono però con assicurare ai proprietari dei fondi rivieraschi l’uso riservato e libero dei litorali e della fascia di mare adiacente al proprio territorio costiero (mare districtum): la privatizzazione di un bene pubblico, in definitiva.
Ad avvantaggiarsene furono soprattutto alcune istituzioni religiose: a Taranto, per esempio, i primi a beneficiare di alcuni lotti del Mar Piccolo in uso esclusivo furono le comunità dei monaci basiliani. Vero è che attorno al 927 d.C. la città bimare venne completamente distrutta e i cittadini uccisi o deportati, ma, quando una quarantina d’anni più tardi l’imperatore bizantino Niceforo Foca provvide a ricostruirla e ripopolarla, le norme emanate da Leone VI erano ancora efficaci e la lottizzazione del mare interno, con la costituzione di “peschiere” private, riprese con vigore. I confini di dette peschiere erano individuati per mezzo di siòni: alberi, case, campanili e pali legati tra loro con funi in fibra vegetale (era utilizzato il giunco Schoenoplectus lacustris) a formare un trespolo, proprio come le “briccole” della laguna di Venezia. Per difendere il legno sommerso dalla biodemolizione operata da muffe, batteri e dalle temibili teredini (definite da Linneo calamitas navium, rovina delle navi), si procedeva con la cosiddetta “bruciatura”: la carbonizzazione della zona più a contatto con il fondo.
La parte emersa, tuttavia, esposta all’azione fotocatalitica dei raggi ultravioletti, a quella termica dei raggi infrarossi e a quella meccanica delle onde, tendeva a rapidamente invecchiare, decolorarsi, assottigliarsi e spaccarsi: la soluzione adottata, per garantire alle palificazioni una quindicina d’anni almeno di efficacia strutturale, era quella di rinforzare la legatura, ispessendola e prolungandola sino ai tratti interessati dal lavorio del moto ondoso. La fune in giunco, tuttavia, costituisce un substrato ideale per l’adesione e lo sviluppo degli organismi incrostanti dell’hardfouling (mitili soprattutto) e del softfouling (spugne, anemoni, alghe).
Le peschiere erano sostanzialmente concepite per la cattura di specie ittiche di pregio (pesci, crostacei e molluschi cefalopodi), sicché il fouling depositato sui pali, di modestissimo valore commerciale, rappresentava un problema cui i proprietari o i gestori avevano periodicamente necessità di ovviare. Si pensò allora di applicare un modello contrattuale largamente utilizzato in agricoltura, il pastinato: tu mi dissodi il campo e tutto ciò che raccogli (bulbi, fiori, verdura) è tuo; ovvero, tu liberi i pali dalle incrostazioni e ciò che recuperi diventa di tua proprietà. Fu così che i mitili, specie infestante di scarso rilievo commerciale, divennero una risorsa marginale della “piccola pesca costiera” utile a garantire reddito alle fasce più deboli della popolazione locale. Naturalmente non è corretto considerare tale attività di recupero come esercizio maricolturale, tuttavia è interessante sottolineare l’evidente contiguità concettuale tra i pali delle peschiere ed i bouchots della baia di Aiguillon, nei pressi di La Rochelle, in uso questi ultimi, narra la leggenda, già a partire dalla metà del XIII secolo. È lecito supporre che, con il tempo e la pratica, si sia pensato di aumentare il numero di pali perimetrali così da garantire una più abbondante raccolta di molluschi: molte peschiere erano in proprietà vescovile o di monasteri e ciò consentiva di assicurare una congrua offerta di prodotti alieutici durante tutto il periodo quaresimale, ad sustentamentum fratruum (per il sostentamento dei frati) come specifica una lettera pontificia di Innocenzo II (che richiamava uno specifico provvedimento emanato da Guglielmo I il Malo). E il papa non si riferiva solo ai conventi prossimi alle peschiere tarantine, ma a quelli di buona parte del Meridione…
Non si può parlare, come già sottolineato, di mitilicoltura in senso stretto, ma di raccolta di mitili su substrati artificiali: una condizione produttiva che si protrasse per diversi secoli, senza che fossero poste in essere varianti “tecnologiche” sostanziali. Il punto di svolta, difficilmente databile, si ebbe con il passaggio dal modello bouchot all’allevamento in sospensione: una soluzione tecnica innovativa che prevedeva l’aggancio ad una trave portante, tesa orizzontalmente tra due pali, di spezzoni di fune in fibra vegetale con lunghezza variabile in funzione della profondità della colonna d’acqua, cui si trovavano aggrappati i mitili: il modello, tipologia della trave a parte, è quello delle peociare ancora esistenti alla foce del Po. Tale tecnica, consentendo la conquista della dimensione verticale, garantisce volumi di produzione elevatissimi, una migliore qualità del prodotto finito nonché un più efficace controllo delle varie fasi del ciclo produttivo: dalla captazione delle larve alla gestione del semilavorato alla raccolta finale.
Ora è finalmente possibile utilizzare il termine mitilicoltura: la struttura portante può essere una cima tesa tra pali (parco fisso) o tra bidoni galleggianti (long-line), oppure una zattera flottante in legno d’eucalipto come in Galizia; gli “spezzoni di fune in fibra vegetale” con i mitili possono diventare retine in polipropilene o in biopolimeri compostabili: il significato concettuale è il medesimo. Dalla caccia nasce l’allevamento, dalla raccolta vagantiva l’agricoltura, dalla pesca l’acquacoltura: sempre prima l’uovo e poi la gallina ci insegna la biologia! Il “dove” non ha importanza, il “quando” interessa gli storici, il “come” gli economisti, il “perché” gli antropologi: tutti, sorridendo, restano però ammirati dalla capacità che ha l’uomo di risolvere i problemi utilizzando le risorse tecnologiche e ambientali disponibili.
Quando ne ha voglia…
Riccardo Della Ricca
Lascia un commento