Quanti sono oggi i migranti in Italia? Secondo gli ultimi calcoli (pubblicati sul Corriere della Sera in un servizio di Milena Gabanelli) 183.000, distribuiti in 15 centri governativi (ex Cara), 652 centri Sprar, 7.500 centri di accoglienza temporanea (Cas), 4 hotspot. Un’accoglienza diffusa abbastanza uniformemente (con le solite eccezioni) sull’intero territorio nazionale e gestita di fatto dalle prefetture che utilizzano strutture di accoglienza in larghissima parte gestite da privati. Un affare di proporzioni consistenti che costa alle casse statali un miliardo e 100 milioni di euro solo per il pagamento degli affitti ad alberghi o ad altre strutture che ospitano i migranti. La spesa complessiva per mantenere queste persone si aggira sui 5 miliardi l’anno. Una cifra enorme che di fatto serve a poco. Perché i progetti di integrazione (a cominciare dall’apprendimento della lingua italiana) sono pochi e scarsamente seguiti, perché questa gente non ha alcuna voglia di rimanere confinata in ambiti angusti e talvolta piuttosto disagevoli, perché l’Italia viene vista come punto di approdo per poi continuare il viaggio verso altre nazioni europee. E quindi accade sempre più spesso che i migranti fuggano ( e d’altronde non sono reclusi…) per cercare di costruirsi da soli il futuro.
In questo meccanismo, per molti versi perverso, le storture sono tante. I tempi di permanenza, innanzitutto; poi la mancanza di integrazione con le realtà locali (di solito piuttosto intolleranti verso queste presenze), quindi la voglia di raggiungere amici e parenti che sono riusciti a sistemarsi altrove. Infine, ma non ultimo, il bisogno economico. Ecco quindi che non è raro (anzi…) il caso di giovani che finiscono nelle grinfie del caporalato o, peggio ancora, della malavita.
Come si esce da questo circolo perverso? Una soluzione potrebbe essere l’utilizzazione di tantissime caserme, oggi abbandonate, che con una spesa non eccessiva e comunque recuperabile nel giro di qualche anno potrebbero essere riadattate per l’ospitalità, prevedendo anche asili per i più piccoli. Nel contempo potrebbero (e dovrebbero) partire corsi di lingua e di formazione con obbligo di frequenza. Il tempo massimo di permanenza sarebbe limitato a 6 mesi, al termine dei quali l’immigrato esce più preparato, più integrato e anche con un mestiere da utilizzare. Questo percorso riguarda i cosiddetti richiedenti asilo, cioè coloro che sono fuggiti da guerre e carestie e che hanno diritto ad assere accolti. E gli altri, che poi rappresentano il 60% di chi approda in Italia? Negli ultimi 3 anni ne sono sbarcati 64.000, ma presenti sul territorio a luglio scorso erano solo 17.864. Il resto si è eclissato, probabilmente finendo nelle maglie pericolose, cui si accennava in precedenza.
Nel primo caso (richiedenti asilo) c’è la disponibilità dell’Europa a finanziare il progetto che avrebbe bisogno anche di circa 22mila professionisti (insegnanti, formatori, psicologi, medici, personale dedicato all’identificazione): quindi lavoro per gli italiani; nel secondo (migranti economici), bisognerebbe pensare un percorso diverso, ma non troppo, perché comunque a noi servono per esempio badanti e manodopera nei campi: “È meglio che siano clandestini sottopagati o lavoratori regolari?”, si chiede la Gabanelli. Non c’è nemmeno bisogno di dare una risposta, tanto è scontata.
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