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Matrimonio, ti ho scelto o continuo a sceglierti?

di | 2024-08-05T09:17:35+02:00 4-8-2024 5:10|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

TARANTO – Nel diritto romano ancora vigente agli inizi del Cristianesimo, il matrimonio era concepito come atto meramente consensuale (consensus facit nuptias = il consenso dà origine alle nozze), che si concretava nella convivenza ed era consacrato dall’affectio coniugalis (in una parola sola: dall’amore) e sostenuto dall’honor matrimonii (vicendevole palese riconoscimento dei rispettivi ruoli). Non ci si sposava una volta per tutte ma, ogni giorno, attraverso la tangibile dimostrazione dell’affectio coniugalis, veniva implicitamente ribadita (continuus consensus) la reciproca volontà di vivere come marito e moglie (conubium).

Giunone Pronuba tra due sposi

Conseguenza diretta di ciò era che, se veniva a mancare l’amore (nel suo significato vero di affetto, intimità, sostegno reciproco, fedeltà, complicità, rispetto e collaborazione) il legame matrimoniale necessariamente cessava (divortium). Più tardi, nel diritto post-classico, gradatamente si affermò il concetto orientale di contratto e il consenso iniziale prese ad acquisire maggiore rilevanza: indipendentemente dal permanere della volontà dei coniugi, il matrimonio continuava a persistere; amore o non amore, l’impegno andava mantenuto e, al massimo, si poteva pensare di prevedere una penale, se l’accordo saltava.

Giunone Pronuba tra due sposi

Venne così introdotto l’istituto dell’arrha sponsalicia, una sorta di caparra (dote) che la futura sposa doveva versare al futuro sposo per garantire l’impegno assunto: se la sposa veniva meno alla promessa data, lo sposo aveva diritto a trattenere la caparra; se era lo sposo a venire meno alla promessa, la sposa aveva diritto alla restituzione del doppio della caparra. Contestuale al versamento della dote, divenne usuale consegnare un anello di fidanzamento alla fidanzata, quale prova dell’accordo concluso e di fedeltà agli impegni assunti: un rito mediato direttamente dall’ambito commerciale classico romano.

Su questa base giuridica andò ad innestarsi il matrimonio cristiano, cui tuttavia, sin dalla fine del primo millennio, venne attribuito, in sintonia con la dottrina paolina, un preciso valore sacramentale e prese a configurarsi un definito rituale liturgico. È vero che nelle rappresentazioni figurative classiche e post-classiche compare spessissimo l’elemento divino (Giunone Pronuba, in particolare), ma sempre e solo in chiave beneaugurante non celebrativa. Anche il matrimonio cristiano è basato sul consenso iniziale, giacché per la Chiesa la fides è destinata a perdurare integra nel corso di tutta la vita dei coniugi, indipendentemente da eventuali successivi ripensamenti. Fa testo il patto stipulato, null’altro: Non enim defloratio virginitatis facit coniugium, sed pactio coiugalis (È il contratto coniugale a rendere valido il matrimonio, non l’amplesso carnale) scrive S. Ambrogio nel IV secolo.

Matrimonio medievale religioso

Otto secoli più tardi Graziano, nel suo Decretum, ribadirà il medesimo concetto (Coniugalis pactio, non virginitatis defloratio facit matrimonium), relegando così la copula carnale a un diritto/obbligo dei coniugi, come quello alla coabitazione. Ma di quale coniugalis pactio si parla? Del contratto civile, ovviamente: quello stipulato davanti ad un notaio. La benedizione religiosa, assolutamente non necessaria alla validità del matrimonio e sempre successiva alla stipula dell’atto civile, aveva lo scopo, secondo Tertulliano (II-III secolo), di render pubblica presso la comunità dei credenti la legittimità delle nozze e di far discendere sui novelli sposi speciali grazie celesti (un po’ come succedeva con Giunone Pronuba).

Padova, Cappella degli Scrovegni, Giotto, Sposalizio della Vergine

Qualcosa, tuttavia, era cambiato. Già S. Agostino (IV-V secolo) aveva affermato che gli sposi cristiani giurano perpetua fedeltà per Christum, ritenendo dunque normale la presenza del sacerdote al rito, ma fu il Concilio di Vernum del 754, convocato da Pipino il Breve, a stabilire l’obbligo alla cerimonia liturgica. S. Paolo considerava l’unione matrimoniale quale immagine dell’unione fra Cristo e la Chiesa, dotata dunque del carattere della sacramentalità e dell’indissolubilità. Per il diritto canonico il momento a partire dal quale l’unione matrimoniale acquistava detti caratteri doveva essere quello in cui gli sposi manifestavano il loro consenso, pubblicamente, in un luogo sacro e alla presenza di un sacerdote che non interveniva in veste di ministro (ministri sono gli sposi stessi) ma di rappresentante di Cristo.

L’affresco di Giotto custodito della cappella degli Scrovegni a Padova (databile ai primissimi anni del XIV secolo) titolato “Sposalizio della Vergine” rappresenta fedelmente lo schema liturgico appena descritto: due sposi che esprimono il loro consenso, Giuseppe che dona l’anello nuziale a Maria, una basilica con un sacerdote officiante e un pubblico ufficiale laico che pronuncia qualche parola di rito, una folla di testimoni attenti e partecipi. Quello tra Maria e Giuseppe sarà un matrimonio casto, ma pur sempre un matrimonio: coniugalis pactio facit matrimonium. Tutti d’accordo sulla necessità di un libero consenso, ma la domanda è: una scelta operata senza possibilità alcuna di ripensamento può essere considerata “libera”? Mezzo secolo fa il popolo italiano ha risposto “no”.

Riccardo Della Ricca

Nell’immagine di copertina, un matrimonio medievale laico

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