PERUGIA – Di mestiere faceva il venditore e riparatore di ombrelli, la fama e l’agiatezza l’ottenne, tuttavia ed incredibilmente, per la sua lunga carriera di “boia”: 68 lunghi anni di lavoro tagliando teste con la scure o con la ghigliottina, infilando colli di uomini e donne nel cappio della forca, mazzolando (cioè colpendo alla testa il condannato col mazzuolo) e squartando. Il tutto, sia chiaro, in forma ufficiale come braccio secolare dello Stato Pontificio e, per un periodo, anche dell’autorità francese.
Conosciuto col nomignolo di Mastro Titta, si chiamava all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti (1779-1869) ed era nato a Senigallia. Si spense a Roma, dove trascorse gran parte dell’esistenza, a novanta anni. Bugatti eseguì, su mandato della giustizia terrena, ben 514 sentenze capitali, di cui 55 per ordine dei francesi, non solo nella Città Eterna, ma spostandosi anche nelle regioni dello Stato Pontificio ed in un caso pure a Firenze. L’ultimo impegno l’assolse – l’11 giugno 1864 – a Subiaco. Per lui più che un lavoro, l’attività di boia – da sempre ritenuta figura abietta – rappresentava una vocazione.
Fu collocato a riposo a 85 anni – evidentemente il suo non era un lavoro usurante avendolo portato avanti sino a questa veneranda età – durante il pontificato di Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, pure lui di Senigallia) che gli riconobbe una pensione di 30 scudi. Esattamente il doppio di quanto il carnefice riscuoteva all’inizio della sua professione, a cui però venivano aggiunti l’alloggio (in Vaticano), sussidi e riconoscimenti vari. La sua eredità di carnefice l’assunse – senza tuttavia raggiungere la fama del maestro – l’allievo Vincenzo Balducci, che lo aveva affiancato fin dal 1850 e che resterà al suo posto fino alla breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870.
Non tutti sanno che Mastro Titta – sul patibolo saliva indossando un elegante mantello, color rosso sangue, naturalmente – consumò la sua prima esecuzione, in maniera inappuntabile sebbene nessun cittadino lo avesse voluto aiutare a tirar su la forca, a Foligno. Correva l’anno 1796 e il carnefice esordì giovanissimo: appena 17 anni. Il 22 settembre di quell’anno gli venne affidato dalla giustizia il condannato Nicola Gentilucci. Questo soggetto – di cui non si conoscono altro se non le generalità ed i gravi reati commessi – aveva ammazzato un prete di Cannaiola di Trevi ed il suo cocchiere – pare per gelosia di una donna – e, successivamente, rapinato e ucciso due frati. Il reo venne trascinato sulla piazza di Foligno e qui impiccato e, immediatamente dopo, squartato.
Già perché alla condanna capitale quasi sempre seguiva lo squartamento che consisteva – orribile a dirsi – in un taglio da vero e proprio macellaio del cadavere appena morto, in più pezzi, davanti al pubblico in genere molto numeroso. In caso di decollazione il boia, come da tradizione, mostrava agli astanti la testa del reo, tenuta per i capelli o infilzata su una picca, spostandosi sui quattro lati del patibolo affinché tutti potessero godersi (sic) lo spettacolo.
Mastro Titta, davvero preciso e puntiglioso, annotava su una sorta di block notes le date, i luoghi dell’esecuzione, i nomi e i reati contestati ai condannati passati per le sue mani. Sulla base di questa scarna ma importante documentazione, alcuni lustri dopo la sua morte, venne redatto da uno scrittore restato anonimo (secondo alcune fonti si tratterebbe di Ernesto Mezzabotta, giornalista, nato a Foligno nel 1852 e morto a Roma nel 1901) un romanzo dal titolo “Mastro Titta, il boia di Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso”. Il testo venne pubblicato a dispense dall’editore torinese Edoardo Perino. E anche qui l’Umbria ebbe a ritagliarsi un suo ruolo, in quanto i fascicoli vennero stampati dalla tipografia Lapi di Città di Castello nel 1886 e venduti in tutta la penisola, divenuta nel frattempo Regno d’Italia, a 5 centesimi ciascuno, ottenendo un rilevante successo editoriale.
Elio Clero Bertoldi
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