NUORO – Italiani brava gente? No, semplicemente dalla memoria corta. Con massacro di Debre Libanos (in amarico ደብረ፡ሊባኖስ, Däbrä Libanos) si fa riferimento alla strage premeditata di appartenenti alla chiesa copta etiopica avvenuta nell’Africa Orientale Italiana all’interno del villaggio conventuale di Debre Libanos tra i giorni 21 e 29 maggio 1937. L’azione venne condotta dalle truppe coloniali italiane sotto il comando del generale Pietro Maletti, allora incaricato della repressione armata nella regione dello Scioa occidentale, per ordine del viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, il quale credeva in questo modo di piegare definitivamente la chiesa copta e la classe dirigente etiopica.
Durante i primi giorni di febbraio due attentatori di origine eritrea, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, che avevano lanciato alcune granate contro alcuni ufficiali e funzionari italiani riuniti per una cerimonia, lasciarono Addis Abeba per recarsi a Debra Libanos, dove furono ospitati del monaco Abba Hanna, e dove per alcuni giorni, con la complicità di due priori del convento, si esercitarono al lancio di bombe a mano, facendo ritorno nella capitale il 12 febbraio. All’attentato seguirono numerose deportazioni di massa di notabili e sospettati nei campi di concentramento di Danane e Nocra, e l’invio di prigionieri di alto rango in Italia, mentre nell’attuazione del “radicale ripulisti” voluto da Roma nella regione dello Scioa, Graziani scatenò un’ondata di terrore che colpì capi sottomessi, nobiltà ahmara, giovani etiopi, civili e infine le categorie di indovini, cantastorie e stregoni, rastrellati e uccisi con l’approvazione esplicita di Benito Mussolini.
In questo quadro maturò quindi anche il massacro dei monaci del convento di Debra Libanos, riconosciuto come il più autorevole centro religioso di Etiopia situato nel nord dello Scioa. Graziani impartì a Maletti, che gli eventi avevano condotto nella zona, l’ordine di recarsi il prima possibile a Debra Libanos e fucilare tutti i monaci del convento. Partito il 6 maggio da Debra Berhan, Maletti attraversò il Mens dove la resistenza era capeggiata dal degiac Auraris Dullu, con una marcia che lo storico Angelo Del Boca paragonò alle scorrerie di Attila, il “Flagello di Dio”. Dai documenti redatti dallo stesso Maletti, le sue truppe incendiarono 115.442 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci) e uccisero 2523 Arbegnuoc. L’intera popolazione del Mens si diede alla fuga per paura di Maletti e delle sue truppe, scappando con il bestiame, rifugiandosi nei valloni e nelle grotte, e a volte unendosi ai guerriglieri.
La città-convento di Debra Libanos venne circondata il 19 maggio dalle colonne di Maletti. A dir la verità le prove di Franceschini erano vaghe e potevano riguardare pochi monaci, non l’intera comunità, ma il viceré era ormai persuaso che a Debra Libanos soggiornassero assassini e briganti protetti da monaci collaborazionisti nemici degli italiani. Poiché Graziani avrebbe dovuto assicurarsi che le esecuzioni fossero eseguite in luoghi isolati per volere del ministro delle Colonie Lessona, ordinò a Maletti di cercare un luogo adatto al massacro, che il comandante dello Scioa trovò in località Laga Wolde, una piana chiusa a ovest da alcuni rilievi e a est dal fiume Finche Wenz, che defluiva nel burrone Zega Wedem. Così, la mattinata del 21 maggio, Maletti trasferì nella piana i monaci, che furono scaricati a gruppi dagli autocarri e fucilati dagli ascari libici e somali di fede musulmana e dagli uomini di etnia Galla della banda di Mohamed Sultan, il 45º Battaglione coloniale musulmano.
In poche ore vennero giustiziati sommariamente 297 monaci e 23 laici, anche con l’utilizzo di mitragliatrici. Graziani, avvisato dell’esecuzione, intorno alle 15,30 comunicò a Roma che il generale Maletti aveva destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospettati di connivenza. Furono risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale, che vennero condotti e trattenuti nelle chiese di Debra Brehan e il convento così venne chiuso definitivamente. Dopo appena tre giorni però il viceré cambiò idea, forse istigato dal più spietato degli aristocratici collaborazionisti, Hailù Tecla Haimanot, e comunicò a Maletti che era ormai certo che la responsabilità fosse da attribuire a tutti gli occupanti del convento. Così il generale Maletti provvide a far scavare due profonde fosse in località Engecha, non lontano da Debra Brehan, dove le mitragliatrici massacrarono 129 diaconi, facendo salire così il numero delle vittime a 449. Maletti inviò a Graziani un telegramma con scritto “Liquidazione completa”, a prova dell’avvenuto massacro, e Graziani comunicò la nuova cifra dei giustiziati a Roma.
Questa non fu solo un’azione militare. L’efferatezza con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno fertile in una propaganda sia politica che religiosa che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici. I libri di storia non riportano questo triste episodio che può essere considerato la più grave strage compiuta nelle colonie italiane durante il fascismo, paragonabile per entità a quella nazista di Marzabotto.
Gli etiopi attendono ancora le scuse, a oltre ottant’anni dai fatti.
Virginia Mariane
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