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Il poema di Mannarino, pallido imitatore di Torquato Tasso

di | 2022-10-21T23:33:29+02:00 23-10-2022 6:25|Cultura, Sezione 6|0 Commenti

TARANTO – C’è una strada, a Lecce, titolata a Cataldo Antonio Mannarino e un’altra ancora a Mesagne (Brindisi). «Mannarino! – ruminerebbe tra sé don Abbondio -. Questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?» Medico e letterato, Mannarino nacque a Taranto nel 1568 e morì nella città natale, ove non esiste alcuna piazza o via o vico a lui dedicati, il 28 luglio del 1621. Tra le varie sue opere, il “poema heroico” in dieci canti Glorie di guerrieri e d’amanti in nuova impresa nella Città di Taranto succedute, pubblicato in Napoli nel 1596, a un anno dalla morte di Torquato Tasso.

Rispetto al poeta “napoletano”, Mannarino riservò più ottave al tema amoroso, ma che sia la “Gerusalemme liberata” il modello di riferimento del poeta tarantino lo dichiara esplicitamente nella prefazione l’amico giurista Lodovico Chiari: «Delle azzioni principali molte ne sono imitate onestamente con amica contenzione da Torquato Tasso, tanto ne gli amori, quant’anco nell’armi, descrizzioni, cosmografia, allegorie ed altri simili». Effettivamente il poema mannariniano, come afferma la professoressa Grazia Distaso, «si pone alle origini del processo di appropriazione della Gerusalemme liberata nel Regno di Napoli», ma, mentre il Tasso scelse di far muovere i propri personaggi sullo sfondo storico temporalmente e spazialmente remoto della prima crociata, Mannarino preferì la cronaca, della quale fu egli stesso testimone: l’assedio di Taranto del settembre 1594 ad opera dei turchi di Hassan Cicala.

La pubblicazione della “Gerusalemme liberata”, in cui realtà storica e invenzione sono sapientemente miscelate e dove l’elemento “meraviglioso” non è, come in Ariosto, favolistico ma, in ossequio allo spirito della Controriforma, religioso, stimolò nel tempo la vena compositiva di molti musicisti e scrittori: Mannarino fu tra i primi a coglierne valenza innovativa e… opportunità. In particolare, la scelta di un quadro scenico di strettissima attualità gli consentì, da un lato, di dedicare l’opera ad uno dei principali attori dell’epopea, l’ancor vivente Alberto I Acquaviva d’Aragona, duca d’Atri e principe di Teramo, e, dall’altro, di portare alla ribalta la figura di Cicala che, appena tre anni dopo la pubblicazione del poema, si trovò ad essere coinvolto nella nota congiura secessionista ideata da Tommaso Campanella.

L’azione bellica si articola in due fasi: i Turchi, arrivati nel golfo di Taranto su decine di imbarcazioni, pongono il loro accampamento nei pressi del fiume Tara e si abbandonano a rapide scorrerie nei dintorni, distruggendo due torri d’avvistamento non presidiate; in soccorso alla città sopraggiungono in forze alcune milizie cristiane e le scaramucce si trasformano in scontri sempre più cruenti, sino alla battaglia finale condotta vittoriosamente dal duca d’Atri. L’intreccio amoroso è più complesso: la bella ottomana Erminia ama, non corrisposta, il prode cavaliere turco Misandro e, per stargli accanto, si traveste da uomo; il tarantino Aquilio, felicemente sposato con Fulgenzia, si invaghisce di Erminia e durante un combattimento uccide Misandro; Erminia, disperata e desiderosa di vendicare l’amato, spinge i cavalieri turchi all’assalto della città, ma il valore delle milizie cristiane ricaccia in mare l’invasore.

L’elemento “meraviglioso” è rappresentato dallo scontro tra Satana, che presiede il terribile Consiglio infernale, e il Dio cristiano, attorniato da una corona di santi (tra cui Cataldo) che pregano per la salvezza di Taranto: l’intero canto secondo è dedicato alla descrizione della tenzone tra Bene e Male combattuta sulle fertili terre dei figli di Falanto. Satana incarica le Furie di fermare le truppe che si preparano a muovere in soccorso della città, Dio invia l’arcangelo Gabriele a difenderle e guidarle. Nello scenario post-tridentino, l’aspro confronto non può che avere un’unica soluzione: la disfatta delle forze del Male ad opera del braccio armato di Dio, Alberto Acquaviva d’Aragona. La descrizione dello scontro finale è cruda: «S’erge dal pian la polve, e cade al piano / il sangue, che l’estingue al pian cadente. / Un lagrima, un singhiozza, un con la mano / sostien la fredda testa egra e languente. / Di sanguigno sudor stilla il profano / languido corpo, e son le forze spente; / s’arrestan mille, mille fuggon, mille / cadon tra ‘l sangue e sbuffan fuor faville».

Gli orrori della guerra riflessi negli occhi di un medico. Durante l’assedio turco, un’ambasceria tarantina, cui partecipò anche Mannarino, incontrò l’ammiraglio Cicala per convincerlo, senza evidentemente riuscirvi, ad abbandonare il campo. Sarebbe interessante conoscere i termini e i toni della trattativa: le proposte, le controproposte, le assicurazioni, le garanzie… Il poeta non ne fa cenno alcuno, come se ipotizzare la possibilità di un accordo con l’infedele risultasse poco onorevole, come se il tentativo di salvare vite umane innocenti finisse con l’oltraggiare l’orgoglio dei potenti: una congrua offerta economica avrebbe di sicuro indotto Cicala a riprendere il mare con le sue navi corsare, ma andò diversamente.

Riccardo Della Ricca

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