RIETI – Dopo il volume sulle chiese di Rieti e l’arte nei borghi della Laga colpiti dal terremoto, la Fondazione Varrone, insieme a Mondadori Electa, ha presentato “La memoria dell’industria. Patrimoni della produzione nella provincia di Rieti” (edito da Rizzoli), in distribuzione gratuitae. Uno sguardo non solo sulla città di Rieti, ma anche nel territorio provinciale, con testimonianze storiche, foto d’epoca e attuali, anche scattate con il drone, dalla prima industrializzazione della città agli stabilimenti di Poggio Mirteto, Stimigliano, la fitta rete di fornaci, mulini, frantoi, pastifici, legati alle trasformazioni del settore agroalimentare. Uno sguardo, il primo in assoluto a Rieti, sui luoghi del lavoro, il patrimonio storico-industriale, fabbriche e opifici, destinati oggi a nuove funzioni urbanistiche “senza romanticismi o nostalgie per il bel tempo andato, ma attraverso una rigorosa esposizione degli elementi raccolti per ogni testimonianza”, sottolinea il presidente della Fondazione Antonio D’Onofrio, che sulle aree produttive dismesse lancia la sfida del “conoscere per riusare”.
Il libro è scritto in collaborazione con i docenti e i ricercatori dell’Aipai (Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale) e l’archivio di Stato di Rieti: Edoardo Currà, professore di architettura tecnica alla Sapienza di Roma e presidente Aipai, e Renato Covino, già presidente dell’associazione e ordinario di storia contemporanea all’università di Perugia, con il prezioso contributo del direttore dell’archivio di Stato di Rieti Roberto Lorenzetti, che è anche vicepresidente della Fondazione Varrone. Dopo i fasti della Rieti medievale, il punto di partenza furono gli anni sessanta dell’Ottocento con i sei mandamenti di Rieti, Fara in Sabina, Magliano Sabino, Orvinio-Canemorto, Poggio Mirteto, Roccasinibalda. Dopo le acque, le ricchezze furono le fibre tessili vegetali e animali, derivanti dall’allevamento e dall’agricoltura, con quattro imprese nel settore serico e del cotone e una vetreria a Poggio Mirteto (chiusa nel 1948), sede anche di una tipografia, poi di una fornace, un’officina meccanica a Scandriglia dopo il 1907.
Poco cambia dopo l’Unità d’Italia, anche se fu determinante la ferrovia Terni-Rieti-L’Aquila. Crescono le professioni legate all’agricoltura (nella piana reatina si produceva il migliore frumento, ciononostante i mulini erano pochi e di modeste dimensioni), viene meno la produzione della seta, mentre iniziano a prevalere l’edilizia, la falegnameria, lavorazioni meccaniche. Nel frattempo era iniziata una nuova coltivazione collegata al ciclo industriale: la barbabietola da zucchero, che portò alla realizzazione di uno zuccherificio voluto da Guido Orazio di Carpegna Falconieri, nobile romano. Nel 1887 l’azienda passò ad Emilio Maraini, che insieme al principe Giovanni Potenziani incentivò la produzione di barbabietole. Maraini sapeva coniugare agricoltura e industria e costituì un cartello di produttori, per richiedere maggiori protezioni doganali. Dal primo dopoguerra e con la costituzione della provincia di Rieti, iniziano rapporti più stretti con la politica e i poteri centrali, spinti anche dal principe Ludovico Spada Potenziani.
Iniziano gli incentivi per favorire nuove imprese, arriva la Supertessile, nel 1923 la Snia Viscosa (impianto soffiato a Viterbo, Sulmona e Venezia, grazie al Principe Potenziani e al sindaco di Rieti Alberto Marcucci), inizia il controllo del sistema idrico Nera-Velino, fino alla realizzazione delle dighe Salto e Turano e la trasformazione del territorio. Nel 1927 le imprese con più di 100 addetti erano solo il mobilificio Nicoletti e la Supertessile (la sua chiusura venne decretata negli anni ’80, la Nuova Rayon chiuse nel 2009, lo zuccherificio venne dismesso nel 1973, la ceramica Sbordoni cessò alla fine degli anni ‘60). Nel 1935 la Orla, di cui resta oggi il campo di volo, porta l’industria aereonautica a Rieti con Francesco Mosca, Giulio Cesare Costanzi, Celestino Rosatelli e Mario Stanzani. Dopo la seconda guerra, la Orla si riconvertì producendo aghi per maglieria, ma poi chiuse nel 1958 “per mancati risarcimenti dei danni di guerra”.
Nel secondo dopoguerra Rieti tornò ad essere area depressa ad economia fondamentalmente agricola, fino alla costituzione del consorzio industriale con i fondi della Cassa del Mezzogiorno nel 1966. Sappiamo come è andata a finire con la fine dell’intervento statale, che aveva invogliato e favorito più l’imprenditoria esterna rispetto a quella locale che si è ritrovata indebolita. Il libro cita il rapporto del Censis del 1984: “…l’iniziativa locale, pur essendosi notevolmente vivacizzata, non è in grado di mobilitare risorse adeguate allo scopo… Lo sviluppo interno è insufficiente, quello esterno aleatorio e questo genera una mancanza di prospettiva all’economia provinciale”. Meno intervento pubblico (R.M. Keynes ci bacchetterebbe fortemente), la globalizzazione e i processi di finanziarizzazione hanno fatto il resto, insieme alla carenza ancora oggi di infrastrutture fondamentali: manca il collegamento ferroviario con Roma, il completamento della Rieti-Torano, ci sono spiragli per il collegamento ferroviario con Ascoli Piceno, la rotatoria sulla Salaria a Passo Corese è stata inaugurata solo alcuni giorni fa.
Lo sfruttamento delle forze idrauliche è stato vissuto come una rapina per il territorio, allora la domanda che ci pone la Fondazione Varrone è: “come operare in un contesto di questo genere in cui sembra declinare il mito della crescita e dello sviluppo e quale ruolo dare ai contenitori attualmente vuoti? Si tratta di raccontare una storia che tenga conto della vicenda industriale della città e della provincia e collocare tutto questo all’interno di uno sviluppo diverso, dove le stesse fragilità dell’area possano trasformarsi in punti di forza. In questo quadro gli elementi della conoscenza del passato divengono essenziali per comprendere le prospettive di un futuro che spesso appare incerto. Farlo significa costruire uno sforzo corale che coinvolga istituzioni, comunità, studiosi, imprese. Senza avviare un percorso di questo genere, i contenitori industriali, oggi deserti, sono destinati a diventare aree di ulteriore degrado, mentre gli impianti ancora attivi (le centrali e le strutture acquedottistiche) non riusciranno a trasformarsi in parte del paesaggio contemporaneo e continueranno a essere visti dalle comunità come un atto d’imperio esterno subito dal territorio”.
Più chiari di così non si poteva essere.
Francesca Sammarco
Nell’immagine di copertina, lo stabilimento della Supertessile nel Reatino
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