PERUGIA – Da almeno diecimila anni (epoca del “Sapiens”) gli uomini allevano le api. Chi lo dice? Lo testimonia un graffito, scoperto ne “La cueva de la arana” (nido del ragno), a Valencia in Spagna, in cui un soggetto (uomo o donna, l’immagine non risulta interpretabile) preleva un favo da un tronco d’albero. Un gesto simile compì, agli inizi degli anni Sessanta, un ragazzino di Pontevalleceppi, poi brillante docente universitario e allevatore di api autoctone (Apis mellifera ligustica): mal gliene incolse, sul momento (fu punto per il modo inappropriato del suo comportamento maldestro e goffo), ma anche l’inizio di un profondo “amore”.
Professor Tiziano Gardi, come ebbe inizio la vicenda del suo rapporto con le api?
“Avevo nove anni e stavo giocando con i miei amici a nascondino nel terreno di un agricoltore nelle vicinanze di casa mia. Di metà ottobre. Al di là di una siepe notai un alveare nel quale entrava ed usciva qualche ape. A quei tempi il miele veniva venduto a tocchi, cristallizzato, avvolto prima nella carta oleata e quindi nella carta paglia. Pensai di avere a portata di mano delle… caramelle gratis. Per cui ruppi un ramo dalla siepe e lo infilai all’interno per far allontanare le api ed arraffare il bottino… Gli imenotteri mi assaltarono e mi punsero di brutto. Venni soccorso dal contadino e dalla moglie che provvidero a togliermi i pungiglioni e attenuarono il gonfiore delle punture con le lame dei coltelli. Seconda l’usanza di allora. Finì che quando tornai a casa presi anche la mia brava razione di botte: all’epoca i genitori davano la cosiddetta ‘giunta’, per buona educazione…”.
La sua fascinazione per questi insetti resistette…
“Si rafforzò, piuttosto. A 17 anni acquistai due bugni rustici, cioè 2 tronchi d’albero con dentro le api, a San Leo Bastia, nel tifernate, per impiantare altrettante arnie… Dopo il liceo classico al Mariotti e gli studi alla Facoltà di Agraria di Perugia, mi specializzai in apicoltura e nel 1979, indirizzato dalla mia docente, la professoressa Marcella Bernardini Battaglini, partecipai ad un corso a Bologna sulle patologie apistiche. La stessa insegnante era anche presidente del Consorzio Provinciale Obbligatorio Apistico e dopo il corso seguito a Bologna mi nominò fiduciario del Consorzio. Questo incarico consisteva nell’andare a visitare gli alveari di apicoltori umbri che ne facevano richiesta al Consorzio e verificare la presenza o meno di patologie apistiche e cercare di risolverle. Tutto questo veniva effettuato con la mia Lambretta X 200, a mie spese. A tanto mi spingeva l’interesse per le api”.
Ed ora questa attività rappresenta anche un impegno su tutto il territorio regionale…
“Io ed il mio amico, dottor Marco Petrarchini, abbiamo impiantato circa 500 alveari tra Gubbio e Terni, lungo tutta la valle Spoletina e l’asse del Tevere. Ed a Pontevalleceppi gestiamo, da quattro anni, una stazione di fecondazione autorizzata e riconosciuta dalla Regione Umbria per la tutela delle popolazioni autoctone di Apis mellifera ligustica. Entrambi siamo iscritti dall’anno 2000 all’Albo Nazionale Allevatori Api Italiane. Le api sono non soltanto produttrici di miele e di cera, ma anche sentinelle dell’ambiente e della biodiversità. Tra l’altro siamo preoccupati, perché a fronte dei cambiamenti climatici e di una estate fortemente siccitosa, se dovesse arrivare troppo presto il freddo, rischiamo che le colonie non riescano ad immagazzinare sufficienti scorte per l’inverno e quindi si rischia di perderne molte”.
Come si sviluppa nell’alveare la vita sociale delle api?
“È davvero un super organismo, formato dalla casta maschile e da quella femminile. Ogni gruppo conta su una regina; su circa 600/700 maschi e, al momento di maggior sviluppo della colonia, su 70.000 api operaie che invece costituiscono la casta sterile. Qualora uno o più delle uova fecondate e deposte dall’ape regina si schiude e la larva viene alimentata dalle operaie anche dopo la 72esima ora con la ‘pappa reale’, questa diventerà la futura regina. Tutte le altre larve che schiudono dalle uova feconde, invece saranno alimentate dopo la 72esima ora con ‘pane d’api’ e diventeranno api operaie. Dal luogo in cui si trova l’alveare, ogni insetto si muove in un raggio di azione di circa tre chilometri d’intorno”.
Come si determina, professore, la fecondazione?
“La regina vergine si alza in volto, talvolta, sino ad otto-dieci metri di altezza e si dirige nelle cosiddette ‘aree di assembramento fuchi’. Qui viene raggiunta dai maschi adulti e sessualmente maturi (i fuchi, appunto) che, a turno ed in volo, la fecondano. Ogni maschio, dopo l’accoppiamento, muore – per setticemia – in quanto il suo organo riproduttore rimane ‘imprigionato’ nella vagina della regina, tanto che il maschio che si accoppia in seguito, è costretto a strapparlo via. Ovviamente subisce l’identica sorte di chi lo ha preceduto”.
Quanti maschi fecondano la regine?
“Dodici, quindici, talvolta anche venti… Quando la spermateca, contenuta all’interno dell’addome della regina, è piena, quest’ultima per la presenza di alcune sostanze particolari contenute negli spermatozoi maschili, subisce un annebbiamento alla vista: è il segnale che deve rientrare nell’alveare”.
Quante uova produce la regina?
“È l’unico animale al mondo in grado di espellere circa 1500 uova ogni 24 ore… la regina presenta un capo ed un torace simile alle sue consorelle, solamente l’addome risulta molto più sviluppato. Diciamo, per fornire una informazione grossolana, che la regina dimostra di essere una volta e mezzo più grande di una operaia”.
Ad un incontro recente alla “Pro Arna” di Civitella d’Arna lei ha presentato due tipi di mieli millefiori dal sapore diverso, uno più scuro, l’altro più chiaro. Quale si addice di più al suo gusto, professore?
“Il primo era un miele millefiori in cui era presente anche della melata, cioè essudati zuccherini raccolti per lo più sulle foglie di alcune piante arboree e ricco di sali minerali. Lo sa che gli antichi romani utilizzavano il miele anche per curare le ferite dei gladiatori? L’altro miele, più chiaro, conteneva anche nettare di coriandolo, lo considero una vera specialità… Ripeto spesso che il miele italiano porta in sé ‘il sapore del sole’ e anche ‘la fatica dell’uomo’. Merito delle nostre api, delle colline fiorite, delle bellezze e del profumo delle campagne e dei boschi. E ricordiamoci tutti questo concetto: difendendo le api, prestiamo soccorso alla natura”.
Da cosa dipende l’allarme per la diminuzione delle api?
“Dai cambiamenti ambientali, dalla scomparsa degli habitat naturali ma soprattutto a causa dell’uso di pesticidi in agricoltura. Tutto questo sta portando anche ad una diminuzione della fertilità dei maschi, come nel genere umano, legata probabilmente all’inquinamento. E poi alla diffusione degli ibridi che diversamente dall’Ape Italiana Autoctona, non si sono co-evoluti nei millenni al clima e alle fioriture del territorio italiano, per cui sono poco resilienti rispetto all’Ape Autoctona. Difendere le api autoctone non significa solo salvaguardare la biodiversità ma, in aggiunta, tutelare l’uomo ed il suo futuro sulla terra”.
Elio Clero Bertoldi
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