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Lo straordinario fascino dei percussionisti Kodō

di | 2022-02-25T18:33:19+01:00 27-2-2022 6:35|Sezione 8, Spettacolo|0 Commenti

ROMA – I percussionisti Kodō, quando salgono sul palcoscenico dei tantissimi teatri dove si sono esibiti nel mondo, nei loro 50 anni di attività, non si sa se considerarli musicisti o mimi, data la spettacolarità dell’insieme. Il pubblico però sapeva bene chi erano e cosa li aspettava: lo si notava subito, dal primo frenetico applauso dei 13 brani eseguiti. Del resto i Kodō, prima del 20 febbraio scorso in cui hanno calcato la scena della Sala S.Cecilia al Parco della Musica, con “One Earth Tour 2022: Tsuzumi”, si erano esibiti nello stesso luogo già nel 2018.

Cosa avvince il pubblico occidentale di questi musici-guerrieri giapponesi? La loro prestanza fisica, l’indubbia preparazione musicale, l’innegabile e ferma convinzione religiosa. Essi sono qui giunti per una tournée mondiale, che partendo da Roma, in Italia avrà quest’unica tappa. Lo scopo è festeggiare i 40 anni dal loro lancio a Berlino, con un famoso spettacolo del 1981, e 50 dalla loro fondazione originaria nell’isola di Sado. Lì nel villaggio di Kodō, vive la collettività dei giovani atleti del tamburo (23 uomini e 9 donne: quasi sempre in tournée nella realtà,) coi 100 uomini dell’entourage del gruppo. Vivono anche gli anziani non più in carriera, e il non piccolo universo dei locali, che in qualche modo partecipa alla custodia del mondo degli avi, come gli stessi Kodō, e dell’arcaica loro tradizione.

Il Giappone intero, nonostante l’enorme sviluppo tecnologico, è attaccatissimo a tale pregressa realtà culturale e artistica: di essa fa parte l’accurata costruzione dello strumento musicale, il tamburo – in giapponese taiko – ricavato dal legno del bigunga, che dal novizio viene lavorato solo con l’ascia, ed esige una forte resistenza nel lavoro, richiedendo almeno due anni per completare il tamburo. Lo scopo è raggiungere il suono cupo, profondo, in cui i giapponesi riconoscono il battito del cuore, che il nascituro sente come primo suono nel corpo della madre. Il taiko possiede anche la voce della divinità: lo affermano i buddisti e gli shintoisti, per cui inizialmente esso veniva destinato ai samurai.

Di questo valore sacrale del tamburo dei Kodō è espressione soprattutto la severità della loro giovane vita, austera e dura (pare debbano correre ogni giorno per 6 chilometri all’andata e al ritorno). Sì, perché il corpo dei Kodō deve essere modellato dall’esercizio fisico, per reggere il peso del taiko e l’enorme fatica dalle percussioni: e deve anche essere prestante per onorare con la propria bellezza la divinità. Famosa è la figura del Kodō E. Hayashi, come famoso è, fra i tanti, il Premio ricevuto dal gruppo a Cannes nel 1994: né va dimenticato che nel 1997 fu inaugurato in America un villaggio per la Fondazione Culturale Kodō.

Nelle circa 6000 performances create dal gruppo negli anni, lo spettacolo dell’atleta che suona il taiko, che lotta col taiko, che impiega la sua enorme forza per ricavare dal potente strumento una voce profonda, come quella del battito del cuore umano, ha per noi un fascino indicibile. Quel battito è stato espresso dai giganteschi tamburi collocati in concerto sul fondo della scena: altri più piccoli si alternavano talora ai flauti, alle campanelle, ed anche alla voce umana, per addolcire con la tenue scala pentatonica la potenza immane del rombo dei tamburi, e la dinamica plasticità muscolare dei musici, ora in corsa ora sdraiati sotto il loro strumento. Ė stato certo uno spettacolo imperdibile.

Paola Pariset

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