TARANTO – Un soldato dell’esercito romano che ha partecipato a diverse campagne militari, ha combattuto sotto Tito, definito da Svetonio amor ac deliciae generis humani (amore e delizia del genere umano), nella cosiddetta “prima guerra giudaica”: ecco la sua storia.
“Il mio nome è Gaio Clodio Secondo, della tribù Velina. Ero un soldato della quinta coorte dell’eroica XV Apollinaris: mi arruolai quando imperatore era Germanico, soprannominato Caligula per la sua abitudine di calzare stivaletti militari. Ho girato l’oriente intero con i miei commilitoni: da Emona, la mia città natale che voi chiamate Lubiana, fummo trasferiti in Pannonia, poi in Syria, sull’Eufrate, per indurre i Parti a miti consigli. Semplici compiti di deterrenza o poco più, si direbbe, ma in realtà ci si stancava meno in battaglia che durante l’addestramento: il comandante diceva sempre che la nostra vita poteva dipendere da una sola goccia in più di sudore”.
Qual è stato il periodo della sua vita militare che ricorda con più piacere?
“Gli anni più belli sono stati quelli trascorsi in Cyrenaica. Eravamo lì quando venimmo a sapere del grande incendio, appiccato a Roma da una strana setta giudaica; eravamo lì quando vidi per la prima volta il giovane legato di Flavio Vespasiano, suo figlio Tito, che aveva assunto il comando della nostra legione”.
Quando ebbe termine questo periodo di relativa tranquillità?
“Dopo pochi giorni dall’arrivo del generale ricevemmo l’ordine di levare il campo e di marciare alla volta della Giudea, ove si diceva fossero scoppiati dei disordini: un’operazione di polizia – pensavamo – e non ne eravamo affatto entusiasti. Quando venimmo a sapere che anche la Fretensis e la Macedonica stavano marciando verso la Giudea, chiedemmo lumi a Sabino, un primipilo siriano da tutti stimato per il suo coraggio. Ci spiegò che la gloriosa XII Fulminata era caduta in un’imboscata 15 miglia a nord di Gerusalemme e le sue aquile erano andate perdute: spettava a noi il compito di lavare il disonore, sedare la rivolta e recuperare le aquile”.
Come andò la guerra?
“Quando arrivammo in Giudea, anche l’ultimo degli ausiliari si rese conto che non c’era nessuna battaglia campale da combattere: i ribelli erano tutti asserragliati in fortezze ben munite, che andavano conquistate una ad una. E così fu. Qualche città si arrese, ma quelle meglio fortificate, ritenendosi imprendibili, decisero di resistere. Non si trattava di bande di rivoltosi: era un intero popolo, compresi vecchi, donne e bambini, a ribellarsi alla cosiddetta pax romana. Una ad una, dicevo. Toccò anche a Gamala: la nostra legione era posizionata a oriente della città, ove sorgeva la torre di difesa più alta. La costruzione del terrapieno fu molto difficile per le frequenti e micidiali sortite degli assediati, ma alla fine riuscimmo a superare le difese naturali: restavano quelle artificiali, che andavano abbattute con baliste, onagri e arieti”.
Gli storici tramandano che la città fu presa con una certa facilità…
“Il primo assalto fu un fallimento e molti di noi restarono uccisi o feriti: il morale dei soldati era molto basso. Tito allora ordinò che, durante il cambio delle sentinelle che erano a guardia degli spalti, tre-quattro legionari strisciassero sino alla base della torre più alta e provassero, scavando, a sfilare alcuni blocchi di pietra in modo da indebolire la struttura e provocarne il crollo. Furono scelti gli uomini più abili e robusti della XV e tra questi c’ero io. Con il favore delle tenebre e il sostegno di Apollo riuscimmo a spostare cinque grossi blocchi e la torre crollò. Su di noi. Mi dissero che un paio di commilitoni si salvò e che uno morì. Io – per Equrna! – rimasi intrappolato, con le gambe schiacciate sotto le macerie. Non ricordo più nulla di quelle ore”.
Sarà svenuto… Ma lei non è morto a Gamala ma ad Emona, la sua città natale: che successe?
“Il giorno dopo mi risvegliai nell’infermeria dell’accampamento: non avevo più le gambe ma ero vivo”.
Sicuramente chiese com’era andata…
“Sì. Mi dissero che, grazie a noi, due centurie, partite all’assalto, erano riuscite a penetrare in città e stavano compiendo una strage: il sangue scorreva a fiumi. In serata si sparse la voce che molti ribelli si erano rifugiati nella parte alta, ma non per asserragliarvisi e combattere: per lanciarsi con mogli e figli nel vuoto degli strapiombi che circondano Gamala. Una mattanza. Grazie a noi”.
Che cosa ha riportato di quell’esperienza?
“Fui congedato con onore e tornai a Emona, ove trascorsi gli ultimi anni della mia vita terrena. Anni in cui ho continuato a ripetermi: grazie a noi, grazie a me. Grazie a me ora Roma è padrona di un mucchio di sassi; grazie a me in quell’area del mondo è stato compiuto un genocidio; grazie a me tanti miei commilitoni non hanno rivisto le proprie case; grazie a me tanti bambini non hanno conosciuto le gioie dell’amore. Grazie a me. Sul campo di battaglia non pensi al dopo, ma il ‘dopo’ viene sempre: per me, il ‘dopo’ è stato peggio della morte e mi perseguita anche ora che vago per i Campi Elisi. O questo è il Tartaro? Basta, ora: mi lasci in pace!”.
Il suo drammatico racconto, signor Gaio, fa venire in mente l’amara riflessione dell’economista francese François Perroux, relativa all’atroce inganno delle guerre: «Si crede di morire per la Classe, si muore per gli uomini del Partito. Si crede di morire per la Patria, si muore per gli Industriali. Si crede di morire per la Libertà delle persone, si muore per la Libertà dei dividendi. Si crede di morire per il Proletariato, si muore per la sua Burocrazia. Si crede di morire per ordine di uno Stato, si muore per il Denaro che lo sostiene. Si crede di morire per una nazione, si muore per i banditi che la imbavagliano. Si crede… ma perché si crederebbe in un’ombra così fitta? Credere, morire? Quando si tratta di imparare a vivere?».
Già, si tratta di imparare a vivere.
Riccardo Della Ricca
Nell’immagine di copertina, i resti della torre di Gamala, la città del Golan distrutta dai Romani durante la prima guerra giudaica
Lascia un commento