RECANATI (Macerata) – Il 29 giugno del 1798, Recanati si svegliava nell’amena quiete della periferia pontificia, come era solita fare ogni mattino. In quella che oggi porta il nome di “Piazza del Sabato del Villaggio”, il conte Monaldo – nel palazzo di casa Leopardi – attendeva il parto della moglie Adelaide, che, nel cuore dell’estate marchigiana, stava per mettere al mondo il primo dei futuri dieci figli, battezzato con il nome di Giacomo.
La nobile famiglia non avrebbe potuto immaginare che, duecentoventi anni dopo, quel lieto evento sarebbe entrato a far parte della storia della letteratura italiana.
Quel fanciullo dagli occhi ridenti, amante della vita e predatore di bellezza – nonostante una parte minoritaria della dottrina continui ad associarlo ad una depressione letteraria che non rende giustizia alla grandezza della sua produzione poetica – trascorre l’intera adolescenza all’interno della biblioteca del padre Monaldo, perfezionando i suoi prodigiosi studi (basti pensare che, già da bambino, non ebbe più bisogno di un precettore o che, attraverso la Bibbia poliglotta, riuscì ad imparare il latino, il greco e l’ebraico) e cercando di soddisfare quelle innumerevoli domande, intrise di filosofia, che la sua mente continuava a porsi in maniera quasi incessante.
Aveva poco più di diciotto anni quando, rimasto esterrefatto dalla profondità di un tramonto recanatese, scrive una lettera ad uno dei più grandi intellettuali del tempo, Pietro Giordani, manifestandogli la sua inclinazione alla poesia. Giordani, a ragion del vero, riconosce il talento del Leopardi, ma – rispondendo alla sua lettera – invita il giovane poeta a cimentarsi nella prosa, stile di minore difficoltà e più adatto ad un adolescente alle prese con la scrittura. Leopardi non raccoglie l’invito e – al contrario – comunica al critico letterario che sarebbe stato un peccato mortale lasciar svanire quell’ardore di gioventù. Pochi anni dopo, a dimostrazione delle sue legittime ragioni, dona “L’Infinito” agli occhi del mondo.
Nel suo “Zibaldone dei pensieri”, nel 1817, scrive: “Ho cominciato a conoscere un poco il bello, facendomi quasi ingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire fra me: questa è poesia”.
È noto che, da ragazzo, era solito alzare lo sguardo verso il cielo nel vano tentativo di riuscire a contare le stelle. Qualcuno, nel borgo, si divertiva a deridere alcuni suoi comportamenti, come veniva derisa – d’altronde – la sua malattia. Se solo avessero conosciuto lo stupore celato dietro quel velo di malinconia…
Caro Giacomo, hai insegnato che basta un effimero raggio di sole o una ginestra che inspiegabilmente nasce in un deserto per rendere libera una Terra in cui ogni debolezza viene messa da parte. Hai insegnato che si può cantare mentre si erra nella notte, che bisogna chiederselo, una volta per tutte, dove porta questo “vagar nostro breve”. Hai insegnato che non è importante avere le ali per mirare le stelle una ad una, ma avere il coraggio di oltrepassare il limes entro il quale l’infinito di un cultura che non ha confini viene tenuto nascosto dalle nostre paure. A volte, anche naufragare può esser dolce.
Grazie per essere, da duecentoventi anni, il faro che illumina il cammino dell’uomo.
Alessio Campana
Nella foto di copertina, Giacomo Leopardi
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