ROMA – Non sono esattamente ciò che noi oggi intendiamo per modello di bellezza ma il loro valore va oltre l’aspetto esteriore. Le “Veneri primordiali”, immagini incise su pietra o osso o realizzate in pietra o terracotta, comparse in tutto il bacino del Mediterraneo ma anche nella catena degli Urali e nell’antica Mesopotamia già 40mila anni fa, raccontano una storia che il progresso ha poi fatto dimenticare. E questa storia è quella del principio femminile, un potere insito nella natura delle donne, che il progresso ha via via cancellato relegando queste ad un ruolo subalterno.
Le Veneri, infatti, essendo state ritrovate in vari luoghi molto distanti tra di loro, in un’epoca in cui le comunicazioni erano impossibili, parlano di una vera e propria, spontanea, divinizzazione della donna per la sua speciale prerogativa: quella di garantire il susseguirsi delle generazioni con la maternità. Le forme steatopigie di queste immagini sono simboliche e significative: grossi seni per allattare e succhiare la vita, grossi fianchi e glutei per contenere il feto e inneggiare alla fertilità. La donna, insomma, nelle società primitive deve essere stata considerata al pari della natura: una dea, la Dea Madre, un essere capace di trasformare il sovrannaturale in naturale attraverso il parto. In essere speciale, degno di venerazione, di un culto.
Esistono degli studi che, oltre a confermare questa teoria, parlano di un’organizzazione sociale, nella preistoria, di impronta femminile. Maria Gimbutas, linguista e archeologa lituana, ha dedicato tutta la vita allo studio della “Dea madre”, scrivendo diversi libri su quella che deve essere stata proprio una religione. Secondo lei nel Neolitico le società sarebbero state addirittura guidate da donne che, essendo madri, non sarebbero mai arrivate a concepire la guerra. E c’è motivo di credere che soltanto con le prime società complesse, caratterizzate dalla differenziazione del lavoro, sarebbe nato il concetto del possesso. E che quel possesso l’uomo l’avrebbe esteso a tutto ciò che esisteva sul suo pezzo di terra, ivi compresa la donna, come lui finora impegnata a tirare avanti lavorandolo per sopravvivere.
Siamo ormai intorno al 3000 a.C., alla nascita delle prime grandi civiltà, parola che da una parte significa progresso e, dall’altra, tutto ciò che esso porta con sé: ambizione personale, fama di conquista, in una parola, “guerra”, la guerra che notoriamente solo gli uomini hanno fatto e sanno fare. Con l’avanzare della guerra e l’emergere di grandi popoli – i Greci e poi i Romani – la donna retrocede, passa il testimone. Le statue, nella cosiddetta età classica, si comincia a scolpirle per gli “eroi”, uomini che uccidono avversari e nemici. Gli esempi di virtù femminile diventano ben altri, non hanno più niente di divino. I Greci lasciano la fertilità a Proserpina mentre i Romani proclamano modello di virtù Lucrezia, che si suicida dopo essere stata violentata per evitare la vergogna al proprio marito.
Con l’avanzare della storia la donna arretra a ruoli sempre più marginali, poi il colpo finale glielo assesta il Cristianesimo con l’assunzione di Maria al ruolo di madre “speciale” perché ha messo al mondo un bambino divino. Tutte le altre donne scompaiono al suo cospetto, anzi, c’è il pericolo che diventino, nel Medioevo, strumento del diavolo e poi streghe. Il resto è storia dei nostri giorni, in cui il principio femminile offeso, vituperato, dimenticato, rimane schiacciato tra una femminilità che per sopravvivere scimmiotta il maschio e la virilità di quest’ultimo che per paura di essere offuscata, uccide se non si sente riconosciuta. La prevenzione del fenomeno dei femminicidi non può prescindere dalla conoscenza di questo retroterra culturale per risanare una mentalità distorta da troppi millenni di fraintendimenti.
Gloria Zarletti
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