Stavolta, faccio un’eccezione: parlo di me, della mia giovinezza, delle mie passioni (che non sono affatto sopite, anzi…), della mia Taranto. Perché il tempo e la lontananza non hanno incrinato il mio radicamento e il mio amore verso la città nella quale ho vissuto per quasi quarant’anni. Intanto, prometto che non accadrà mai più, ma sento quasi un dovere morale verso i miei conterranei e verso la squadra di calcio per la quale continuo a tifare da oltre sessant’anni: cioè da sempre. Questa lunga premessa per dire che oggi pubblico sul Punto Quotidiano un articolo scritto in settimana per il sito www.lapiazzarossoblu.it: lo avevo concordato con due tarantini Rodolfo De Molfetta e Giampaolo Barletta, anch’essi emigranti (anzi, esuli) e fortemente attaccati alla “città dei due mari”, alle sue tradizioni e alla compagine calcistica che la rappresenta. Lo faccio con affetto infinito perché il primo (e unico) amore non si scorda mai.
Quasi trent’anni. Tre generazioni almeno che non lo hanno mai vissuto; e poi quelli che nel frattempo se ne sono andati e gli altri che c’erano allora e ci sono adesso. Tutti accomunati da un unico sentimento che si trasmette di padre in figlio, di tifoso in tifoso, di appassionato in appassionato. Perché quella di domenica prossima non è una partita qualunque, una delle 38 che il calendario propone: no, Taranto – Bari (che si giochi in riva allo Ionio o sulle sponde dell’Adriatico) è “la” partita. E’ “il” derby”.
Chi avrebbe potuto immaginare che ci sarebbero voluti più di 29 anni per rivedere in campo rossoblù e biancorossi? Era quella una stagione travagliata già dalle prime battute e, infatti, l’estate seguente fu sancita dal fallimento e dalla retrocessione: non c’è bisogno di specificare quale delle due squadre e delle due tifoserie fu investita da quel ciclone… Da allora, un lento, inesorabile declino che soltanto da qualche mese sembra interrotto: la serie D, le trasferte su campi di paesetti impronunciabili e sconosciuti, l’esilio a Castellaneta, i playoff falliti (dapprima contro il Catania, e poi Avellino, Atletico Roma, Pro Vercelli, Ancona…), il ritorno tra i Dilettanti, le scalate tentate e inesorabilmente fallite, la serie C ottenuta con un onerosissimo ripescaggio e durata lo spazio di una stagione. Infine, la promozione sul campo del giugno scorso e la possibilità di giocare nuovamente quella gara.
Dall’altra parte, stagioni favolose fatte di serie A, di scontri contro le grandi, di giocatori lanciati nel firmamento nazionale e non solo (“Metti a Cassano…”), di campionati quasi sempre di vertice o comunque tra i protagonisti. Anche per loro, comunque, ci sono stati il fallimento e la retrocessione in D, ma in quelle contrade (per abilità o per caso) la nuova proprietà faceva capo al signor De Laurentiis, patron del Napoli. Quindi, la permanenza tra i Dilettanti dura solo un anno: campionato vinto in carrozza e pronto ritorno tra i professionisti per provare subito a salire in B. Con larghezza di mezzi, naturalmente.
Il 27 settembre 1992, domenica dell’ultimo derby, chi scrive aveva già lasciato Taranto per cercare (e trovare) altrove la stabilità professionale e la serenità personale e familiare che la sua città non aveva saputo (o potuto) dargli. Come tanti altri costretti ad emigrare e a vivere la passione da lontano. Sicuramente non con minore intensità.
Da dove nasca cotanta rivalità (che non è solo calcistica) è difficile da stabilire con precisione. Ragioni storiche, culturali, economiche. Bari da sempre ha fatto la parte del leone in Puglia, monopolizzando risorse, incarichi prestigiosi, posti di potere dai quali è certamente più facile ottenere e dirottare finanziamenti e contributi. Un esempio banale (ma non tanto): l’unico presidente tarantino della Regione è stato Angelo Monfredi, in carica dal 4 luglio al 23 settembre del 1983. Poco più di due mesi per un governo che, all’epoca, si definiva “balneare”. Per il resto solo baresi e, ogni tanto, qualche leccese.
Agli inizi degli anni Settanta, durante il liceo (Quinto Ennio, corso D), si parlava con frequenza dell’Università a Taranto. Assemblee, qualche sciopero, tanti dibattiti: noi studenti eravamo assolutamente a favore di una sinergia con l’ateneo di Lecce. Evenienza complicatissima, perché da Bari venivano continuamente erette barricate insormontabili: quando mai poteva essere permessa la nascita di un polo universitario così importante da poter mettere in dubbio addirittura la supremazia regionale e non solo? E, infatti, i corsi sono arrivati in riva allo Ionio, ma come emanazione dell’università di Bari. Col senno di poi, verrebbe da dire che bisognava essere più realisti e puntare da subito sull’alleanza con i baresi: probabilmente le cose si sarebbero sistemate molto prima.
Si chiedevano a quel tempo soprattutto corsi di laurea di natura scientifica (ingegneria, chimica, fisica, biologia) perché in qualche modo connessi alla grande industria alla quale si affidavano le sorti della rinascita. L’Italsider era considerata ancora “madre” e non ancora “matrigna”, come ci saremmo accorti negli anni seguenti.
Ma mentre a Taranto ci si accontentava del “posto fisso” (abbastanza sicuro) e della relativa pensione (bassa, ma anch’essa sicura), a Bari si comportavano come sempre hanno fatto nella storia: sono levantini, guardano al commercio, preferiscono investire (e rischiare) piuttosto che nascondere i soldi sotto il mattone, come spesso accade dalle parti nostre. Più realisti e concreti da un lato, più idealisti dall’altro. Cosa sia meglio, non si può stabilire. Noi orgogliosamente spartani (sì, quelli che, alle Termopili, in 300 tennero testa per tre giorni allo straripante esercito persiano di Serse I), loro rigorosamente legati all’Oriente e agli scambi. Noi statalisti (i cantieri navali, poi l’Arsenale, poi il Siderurgico), loro imprenditori nell’animo. Persino la birra divide: rigorosamente Raffo a Taranto, Peroni a Bari.
Il derby che con maggiore felicità torna alla mente? Quello del novembre ‘77, marchiato dal pallonetto di Erasmo Iacovone e arbitrato da Michelotti di Parma: Salinella gremito ed entusiasmo alle stelle per una straordinaria impresa. In una sola parola: indimenticabile. Ma c’è un altro ricordo ugualmente vivo nella memoria: esattamente 10 anni dopo, i rossoblù giocano allo Stadio della Vittoria ed è la prima volta di Maiellaro in maglia biancorossa.
Il giocatore che aveva incantato e guidato il Taranto alla salvezza negli spareggi di Napoli era stato ceduto ai “cugini” per 2,3 miliardi di lire e due giocatori. Il problema non era la cessione, necessaria perché il presidente Fasano aveva bisogno di soldi freschi, quanto il fatto che in tutte le squadre poteva finire il “nostro” Pietro, ma non in biancorosso: ci furono proteste, persino qualche tentativo di assalto alla sede sociale, ma non ci fu niente da fare. Per la cronaca, il Bari vinse 1-0, ma l’episodio più significativo avvenne negli spogliatoi. Maiellaro, atteso per le dichiarazioni del dopo-gara, liquidò i colleghi baresi con quattro battute in croce e poi si avvicinò ai giornalisti tarantini. C’erano Lorenzo D’Alò, Gianni Camarda e Marco Tarantino (che allo “zar” aveva dedicato migliaia di righe indimenticabili in memorabili e poetiche interviste per il Corriere del Giorno) e chi scrive (che quelle interviste le titolava). Si cominciò a parlare del suo trasferimento, di come si trovava, dei suoi amori, non della partita perché contava poco in quel momento. Gli addetti facevano bottone, come si suol dire, perché la familiarità di Pietro con gli “odiati” tarantini dava fastidio: più volte lo sollecitarono a tagliar corto, fino a quando lui li mandò cordialmente a quel paese per intrattenersi con noi per tutto il tempo necessario. A proposito, il fotografo era Ninni Cannella, che ci ha lasciati per sempre qualche mese fa, vittima del dannato Covid.
Ecco che cos’è “il” derby per i tarantini. E non conta il fatto che loro sono anche quest’anno molto più forti, che andranno in serie B e che noi dovremo solo salvarci (mancano 16 punti per la fatidica quota 40: non lo dimentichiamo mai) per poi sperare in un futuro migliore. Per fortuna, il calcio non è una scienza esatta e non è affatto detto che i più bravi vincano sempre e comunque. Intanto dopo oltre 29 anni torniamo a calpestare l’erba dello stadio barese: godiamoci questo momento e tifiamo intensamente. Anche e soprattutto per quelli che non ci sono più.
Buona domenica (e buon derby).
Nell’immagine di copertina, il Castello Aragonese colorato di rosso e blu per il derby Bari – Taranto
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