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Le panchine giganti snaturano l’ambiente?

di | 2022-06-19T13:08:40+02:00 19-6-2022 6:35|Attualità, Sezione 8|0 Commenti

ROMA – Il teorico del paesaggio Alexander von Humboldt non sarebbe d’accordo e Giacomo Leopardi, addirittura, ci diventerebbe matto, lui che l’Infinito lo contemplava anche con problemi di vista e seduto sull’erba della sua villa a Recanati. Invece oggi ci sono le panchine giganti, vistosissime sedute da cui contemplare la natura. Sui social impazzano, moltissimi fanno carte false per farsi una foto sopra ma tante sono anche le polemiche. Quelle panchine giganti (Big Bench), che ormai da qualche anno campeggiano nel bel mezzo di viste panoramiche già mozzafiato di suo, dividono gli escursionisti e i turisti. Oltre a chi ci si immortala per postare foto sui social come dopo aver scoperto chissà cosa, c’è anche chi proprio non riesce a digerirle. Un dato, però, è inconfutabile: il termine “paesaggio” ha un significato ben preciso e non ha bisogno di accorgimenti o spintarelle per esprimerlo.

La Treccani ne parla come di “territorio che si abbraccia con lo sguardo da un punto determinato (…) e, in generale, tutto il complesso dei beni naturali che sono parte fondamentale dell’ambiente ecologico da difendere e conservare”. E allora perché invogliare i turisti con queste invasive strutture di colore sgargiante, collocate in modo da dominare  e devastare cime altissime, prospettive ardite, località incontaminate? Probabilmente, perché il terreno è fertile: molti sono quelli che, presi dalle mode e dal vortice della vita quotidiana ma anche dal consumismo, non riescono a fruire della natura se non con il classico “aiutino” che gliela faccia notare. Di Big Bench ce ne sono in tutto il mondo, ma il “grosso” del fenomeno ha attecchito in Italia dove è esplosa la moda e ne sono già state installate circa 200 in posti strategici, mete di un “pellegrinaggio” continuo di “panchinisti” invasati .

Ciò avviene da quando, nel 2010, Chris Bangle, un americano trapiantato a Clavesana, in Piemonte, ha fondato una comunità (la Big Bench Community Project), con l’obiettivo di promuovere il turismo e, in sostanza, attrarre i visitatori alle bellezze della natura collocandoci questi mega impianti che si impongono più come un pugno nello stomaco che per la loro originalità. La loro funzione, secondo l’inventore e le amministrazioni che hanno accolto la sua idea, sarebbe quella di promuovere lo stupore e la meraviglia tipica del bambino perché sulla “panchinona”, effettivamente, ci si sente piccoli e sedendosi si rimane con le gambe ciondoloni. Ma da lì a recuperare solo per questo lo stupore perduto ce ne vuole. Il discorso non farebbe, infatti, una piega se le emozioni funzionassero meccanicamente ma non è così. Sarebbe come dire che indossare un grembiule dell’asilo fa diventare capricciosi e incapaci di parlare se non con la lallazione. E nemmeno questo è vero.

Mentre, quindi, c’è chi, entusiasta, ha abbracciato il progetto, lo divulga e ha iniziato il “cammino” per vederle tutte, le Big Bench, qualcun altro non riesce proprio a sopportare questa “antropizzazione” selvaggia di paesaggi sublimi e non bisognosi di nulla per conferire allo spettatore lo stato di grazia, l’incanto del bambino davanti a certe visioni. Fabio Balocco, sul Fatto Quotidiano, ha definito quella della mega panchina, per dirla alla ligure, “l’ennesima belinata”, “uno sfregio alla natura”. Il blogger Pietro Lacasella su “Altorilievo” ha parlato del progetto di Bangle come di “una distorsione disneyana”, “un innesto di elementi insensibili agli equilibri della natura”. Eppure quest’ultima, di cui facciamo parte, non ha bisogno di “strumenti” per essere notata. Quello che serve non è sentirsi fisicamente piccoli come bambini ma ritrovare dentro di sé la curiosità delle origini per poter vedere quanto sia straordinaria la natura.

Lo sa bene Giovanni Cosoli, anconetano, fotografo per diletto, che con la sua macchina fotografica è riuscito a “catturare” quelle meraviglie che ai più passano sotto gli occhi senza essere viste. Si tratta sempre di particolari umili “che vengono per lo più snobbati – spiega Cosoli – ma che guardandoli con attenzione possono rivelare una infinita bellezza”. Un continuo esercizio, il suo, capace di dare risultati strabilianti: le immagini straordinarie. Il bello è che lui ci mette, in tutto questo, solo gli occhi con i quali scova quei tesori nascosti. Dapprima se ne meraviglia e solo dopo porta via con sé le foto che ha scattato.

Giovanni Cosoli

Ce ne sono, tantissime, tutte belle, sulla sua pagina facebook che diventa una piacevole e, a suo modo, affascinante passeggiata tra i fili d’erba, sui rami di alberi, tra le foglie. Vi troviamo l’infiorescenza della patata, nei commenti definita di “rara bellezza”, il fiore dell’ulivo, quello della giuggiola e dell’asparagina, degni dei più raffinati bouquet, funghetti che, accostati ai pupazzetti che lo stesso Giovanni costruisce, formano originali composizioni. Ma anche uccelli e animali selvatici, fotografare i quali non è facile: ci vuole rispetto, silenzio e anche tanta tecnica. C’è tutto un mondo, piccolissimo e pieno di poesia, in quelle immagini di una natura che rischiamo di perdere a causa della nostra disattenzione. Giovanni non ha bisogno di panchine né grandi né piccole, né di progetti per osservare e scegliere cosa immortalare. Gli basta fermarsi ad ascoltare e guardare, il resto viene da sé. La natura, infatti, possiede tutto ciò di cui gli occhi e il cuore hanno bisogno.

Gloria Zarletti

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