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San Francesco dalla Spogliazione al rapporto con la Natura

di | 2020-05-24T11:11:23+02:00 24-5-2020 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

ASSISI (Perugia) – Giotto, sulle pareti della Basilica Superiore di Assisi, ha reso immortale coi suoi affreschi, quel comportamento di Francesco, che i contemporanei stigmatizzarono come “scandaloso” o come una “pazzia”: la restituzione al padre, il ricco mercante Pietro di Bernardone, di ogni bene ricevuto, non solo il denaro, ma persino i vestiti, tanto da rimanere completamente nudo e da dover essere, pudicamente, coperto dagli sguardi degli astanti con un lembo del mantello dal vescovo che presiedeva la vertenza civilistica tra genitore e figlio. L’abbraccio a “Madonna povertà”, come radicalità evangelica, come imitazione di Cristo.

Pochi giorni fa in streaming proprio questo argomento è stato affrontato in un dibattito – dal titolo “Francesco e la Spogliazione” – al quale hanno partecipato il vescovo della città serafica Domenico Sorrentino, il teologo francescano Domenico Paoletti, la giornalista e scrittrice Elisabetta Lo Iacono, coordinati dal giornalista Rai Rosario Carello. Sorrentino era collegato dalla “sala del trono” da qualche anno ribattezzata “sala della Spogliazione”, perché qui, secondo una vulgata, Francesco avrebbe pubblicamente compiuto quel gesto che altre fonti sostengono sia avvenuto all’aperto (magari nel chiostro o addirittura in una piazza). Ma questo è un particolare che appassiona solamente gli studiosi di storia francescana. Francesco – cresciuto negli agi, teneramente amato dalla madre (Pica, che pare fosse originaria della Provenza Terra di trovatori e della poesia cortese), addirittura idealizzato dal padre, che avrebbe voluto vederlo scalare gli ambienti sociali, magari anche solo cittadini – dopo la giovinezza spensierata trascorsa tra feste, madrigali, giostre e tornei, era precipitato in un periodo di crisi esistenziale e religiosa. Persa, in armi a fianco dei suoi concittadini, la battaglia di Collestrada, contro Perugia e finito prigioniero, appena ventenne, per più di un anno, prima del pagamento del riscatto e della liberazione, nella loggia dei Lanari sull’acropoli dei vincitori, nella inquietudine dei suoi pensieri e delle sue riflessioni profonde sul senso da dare alla vita – conosceva il latino ed il francese, si dilettava di musica e di poesia – abbracciò il sogno della Crociata, al seguito di Gualtieri di Brienne.

Il padre lo accontentò ancora una volta, acquistandogli un destriero vigoroso, una scintillante armatura, lo dotò di ogni cosa che risultasse necessaria al viaggio in terre lontane ed alla guerra. Partì, dunque, Francesco con altri compagni, ma dopo pochi chilometri, alle porte di Spoleto, lungo la “valle mea spoletana” (come la chiamava lui stesso) si fermò e tornò indietro. Addio all’esperienza di cavaliere. “Vuoi seguire il servo o il padrone?”, gli aveva domandato una voce interiore. Da qualche tempo, d’altronde, il giovane si stava comportando in modo “strano”. A Roma, dove era stato mandato nel quadro delle attività commerciali paterne, aveva scambiato i propri ricercati abiti con quelli di un mendicante, lisi e maleodoranti e aveva devoluto i guadagni incassati in elemosine. A Foligno aveva venduto le stoffe del padre e persino il cavallo per consegnare il ricavato al prete di San Damiano, affinché desse avvio alla ristrutturazione della chiesetta. Non solo: come non bastasse girava, ormai isolato da tutti gli amici festaioli, con poveri stracci addosso, logoro e sporco per le vie di Ascesi. A Pietro di Bernardone era saltata la mosca al naso. Tanto da ridurre in catene il figlio, impazzito (a suo avviso e per la comunità) e da rinchiuderlo nei fondi del proprio palazzo, come in un carcere. Il mercante si sentiva proditoriamente tradito: quel figlio al quale aveva dato di tutto e di più non solo non seguiva i suoi consigli e l’azienda familiare, ma ora arrivava ad esporlo al dileggio di tutta la città. Comprensibile la sua irritazione, il suo sdegno.

Era così esasperato quel genitore che mosse passi ufficiali per diseredare il primogenito davanti al governo cittadino. Francesco non si oppose minimamente all’iniziativa paterna, se non su un solo punto, che cioè la cerimonia formale si tenesse, non davanti alle magistrature civili, ma di fronte all’autorità religiosa, il vescovo Guido II. Ed ecco dunque che il 12 aprile del 1207 (altre ipotesi parlano di un anno o due precedenti, ma pure queste sono questioni da esperti) Francesco si spoglia, letteralmente, di tutto. Fino a rinnegare il genitore terreno, per abbracciare il padre celeste. Le fonti riferiscono che pronunciasse, in quei momenti così tesi e drammatici, la frase: “Di qui in avanti posso dire con certezza: Padre nostro che sei nei cieli, poiché Pietro di Bernardone m’ha ripudiato”. Per crescere e maturare, secondo le scuole di psicologia, bisogna “uccidere il padre”, non certo in senso letterale, ma metaforico. Con quella presa di posizione Francesco, al di là degli aspetti teologici e religiosi, fotografò un gesto altamente rivoluzionario. Coraggioso ed umano al tempo stesso. Recise ogni legame privato per tuffarsi, anima e corpo, nella sua missione a favore degli ultimi (chi ricorda il bacio al lebbroso?), delle creature in senso lato, della stessa natura sfiorando persino il pericolo di venire confuso dalla Chiesa con i panteisti e di finire nella lista degli accusati di eresia.

Un piano di lettura laico di quel clamoroso “rifiuto”, altrettanto significativo di quello religioso (approfondito nel corso del collegamento in streaming), in questi tempi segnati dal Coronavirus, dovrebbe spingere l’umanità a darsi, quanto meno, una regolata sullo sfruttamento esasperato delle risorse della Terra; sulla corsa al consumismo più sfrenato; sull’incensamento idolatrico dell’egoismo cieco ed ossessivo. La pandemia ha messo platealmente a fuoco la fragilità del mondo così come le generazioni lo hanno ridotto in secoli di predazioni a tutte le latitudini e la stessa debolezza e gracilità degli uomini, alcuni dei quali scioccamente si ritengono padroni di se stessi, della propria vita e dell’universo, sulla fiducia, mal riposta, nelle scoperte scientifiche e tecnologiche.

Come poche altre volte nella storia umana, oggi emerge sempre più la necessità e l’urgenza di rapportarsi in modo diverso e più rispettoso con la natura e con gli altri e di come sia indispensabile e indifferibile una politica nuova, che segni una cesura netta col passato e si muova con intelligenza e prudenza a difesa del creato nella sua interezza, diseredati compresi e delle risorse disponibili ma non illimitate. Forse per quella scelta eroica Francesco, allora come oggi, è così amato. Non solo sotto il profilo religioso. Radicale, determinato, consequenziale nelle sue non facili né semplici decisioni. Rimasto sempre fedele ai suoi principi ed alla sua umanità. Fratello di tutti, uomini, animali, natura, come ricorda nel “Cantico delle creature”. Mai cupo, mai apocalittico, ma piuttosto amichevole (il suo saluto suonava “Pace e bene”) e sorridente (da cui la definizione di “giullare di Dio”) e sempre alla ricerca della letizia, persino attraverso il dolore. Quando sentì che “sorella morte” si stava avvicinando chiese ai suoi fratelli un’altra spoliazione: di essere deposto nudo sulla terra. E mandò a dire alla nobile Jacopa de’ Settesoli, sorella in Cristo, che gli portasse, il più in fretta possibile, uno di quei dolcetti, i mostaccioli, che lei era solita offrirgli quando andava a Roma.

Umanissimo, Francesco. Inimitabile come Santo, almeno da tenere da esempio quale Uomo, che indica la strada del rispetto, della pace, della solidarietà, della fraternità, unica possibilità che offra un minimo di garanzia alla sopravvivenza del genere umano.

Elio Clero Bertoldi

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