FIRENZE – Metti caso di un ponte lungo, metti caso che hai voglia di fare un viaggio, metti caso che riesci pure a pianificarlo: acquisti il biglietto per Firenze, prenoti le visite ai musei per contrarre i tempi di attesa, infili nel bagaglio due cambi, un impermeabile e l’ombrello perché la pioggia ormai è compagna fedele di questo maggio. Poi arriva il giorno e ti ritrovi in una città superba e altera, con i suoi palazzi antichi, le sue torri, i suoi secoli di storia. Sei lì stordita da tanta bellezza, il tuo occhio rapito dalla maestosità del duomo, dalla cupola del Brunelleschi, dalla facciata finemente decorata, da una luce che riverbera sul quel marmo bianco, dalle infinite altezze e sublimi sculture, sei lì trasportata dalla folla di turisti, immersa in una babele di lingue e leggi il tuo stesso stupore sul viso di migliaia di visitatori. Uno stordimento, un tripudio di emozioni mentre cerchi di afferrare, di capire, di immaginare i committenti e le maestranze che ordinano, progettano e realizzano opere d’arte che diano loro prestigio e immortalità.
Firenze riluce di pietre intarsiate, di pietre scolpite, di colori tenui come la Primavera del Botticelli e di colori sgargianti come alcuni soffitti di Palazzo Pitti. E poi quel fiume smeraldo che scorre talvolta placido, talvolta impetuoso e prepotente sotto quei ponti. E sei lì su Ponte Vecchio ad ammirare le casupole che sbriluccicano di ori e che un tempo invece erano sommersi dall’olezzo delle carni macellate, tanto che i vecchi mecenati volendo oltrepassare quel luogo, per non mischiarsi alla plebe, fecero costruire un lungo budello, il corridoio vasariano, per congiungere palazzo Pitti a palazzo Vecchio, sventrando torri, chiese. Lo stesso Hitler percorrendolo rimase affascinato dalla vista che godeva attraverso le piccole aperture in prossimità del ponte Vecchio tanto da ordinare che quel luogo venisse risparmiato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Svoltando l’angolo ti ritrovi sotto i portici che conducono agli Uffizi, una costruzione ad U, che conserva una larga fetta di opere d’arte di inestimabile valore: Botticelli, Leonardo da Vinci, Caravaggio, Raffaello, Michaelangelo solo per citarne qualcuno. Ogni sala meriterebbe una sosta infinita, uno sguardo attento, alcuni quadri rapiscono più di altri e finalmente quelle immagini studiate svogliatamente sui libri di storia dell’arte diventano reali, affascinanti, svelano storie, segreti, misteri.
Mio figlio mi trascina via, ma ho la sensazione di essermi persa qualcosa, di non aver visto abbastanza mentre lui balbetta qualcosa io inforco le scale e mi ritrovo sul terrazzo. Da lì si domina un panorama da cartolina: svettano torri, campanili e cupole in un cielo finalmente libero dalle nuvole minacciose di pioggia. Ho poco tempo e tanta adrenalina, i miei compagni di viaggio si arrendono mentre io mi dirigo a Palazzo Pitti, al giardino di Boboli, al museo dantesco. Ancora emozioni, ancora odori, ancora scoperte. Uscendo all’aria aperta provo una sensazione di smarrimento, una sorta di vertigine, mi chiedo se sia la cosiddetta sindrome di Stendhal. No, nessuna sindrome, semplicemente ho dimenticato di mangiare. Mi aspettano per la cena, vado, ma non sono di buona compagnia, sto progettando il percorso per i giorni successivi, ho inserito anche il McDonald’s perché mio figlio vuole visitare anche quello, anche se cerco di convincerlo che è uguale a quelli che già conosce. Lui mi risponde candidamente che anch’io sono voluta ritornare in luoghi che avevo visitato tanti anni prima.
Ha ragione, a Firenze io già c’ero stata ma l’avevo guardata con occhi diversi e inconsapevoli dei tesori e della storia che custodiva. In fondo avevo anch’io la sua stessa cecità, per fortuna gli anni e la maturità mi hanno regalato la curiosità di scoprire e vedere con occhi nuovi e soprattutto la capacità di emozionarmi di fronte a un’opera d’arte o a un paesaggio.
Tania Barcellona
Nella foto di copertina, un panorama di Firenze
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