A Pasqua vorrei dare voce alle emozioni. Non è semplice perché dare forma ai ricordi, ai sentimenti, alle sensazioni non è affatto facile. Condividere quanto di più profondo c’è in me non solo è difficile, ma potrebbe sembrare anche presuntuoso. Perché qualcuno dovrebbe partecipare alle mie emozioni? Perché sono belle, forti, positive e parlano di come un padre ha trasmesso alla propria figlia, ai tempi molto piccola, un amore, un incanto, particolarmente avvertiti in un preciso momento dell’anno denso di tradizioni ed emozioni. Forse, per capirmi, bisognerebbe essere pugliese, come me; oppure avere un padre, molfettese, come il mio, che da tanti, troppi anni non è più al mio fianco anche se è sempre vivo nel mio cuore.
Pasqua era, per me, la ricorrenza più emozionante. Tutta la famiglia si trasferiva da Roma a Molfetta perché mio padre, il venerdì santo, portava sulle spalle, in processione, il Cristo morto. Ricordo, come fosse ora, la sua preparazione perché lo osservavo incantata mentre stirava il saio che avrebbe indossato durante la processione avendo cura di rimuovere le macchie di cera che potevano essere rimaste dall’anno prima; ricordo altresì la naturale eleganza con cui indossava il vestito scuro con la camicia bianca e la cravatta nera proprio come se stesse andando a un funerale e, infine, sopra a tutto, infilava il suo saio, marrone, dello stesso colore dei guanti di pelle che completavano la vestizione. Poi, appena pronto, andavamo tutti in chiesa: i grandi a meditare e i piccoli a recitare una preghiera davanti alla statua del Cristo morto. Era notte o forse l’alba quando la processione iniziava a sfilare, lenta e cadenzata ed io avevo un po’ paura: il buio, la musica solenne e triste e quelle statue tragiche che raffiguravano nostro Signore nel corso della sua passione fino all’ultima che mostrava il corpo del Cristo adagiato dopo la morte in croce, rendevano l’atmosfera triste e cupa.
Eppure ho imparato ad amare proprio allora ciò che mio padre amava. Mi ha trasmesso la sua devozione e con essa il suo approccio filosofico alla religione. Quel Cristo che lui portava sulle spalle non era una statua, era un simbolo. Quel Cristo morto che ondeggiava sulle spalle di quegli uomini incappucciati, era il messaggio più tragico ma anche più potente di un uomo, che aveva affrontato la sua vita, il suo destino fino alla fine e che morendo sulla Croce aveva dimostrato che il dolore e la morte non sono il fine ultimo della vita ma un passaggio attraverso il quale si accede ad uno stato di rinascita e beatitudine.
Dopo la morte di mio padre non siamo più tornati a Molfetta, troppi ricordi, troppe emozioni ma conservo, gelosamente, una piccola statua del Cristo morto che espongo, nell’intimità della mia camera, per qualche giorno fino a Pasqua. E’ la più bella eredità che mio padre mi ha lasciato. Con la maturità ho capito che non c’è solo la morte corporale, ma, a fronte di un grande dolore, ci può essere anche quella spirituale ma il messaggio che ho imparato a decodificare è sempre lo stesso: si può, anzi si deve, risorgere.
Silvia Fornari
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