MILANO – Il 22 settembre si è celebrata la Giornata mondiale dei fiumi, mentre nei paesi di mezza Europa si assiste impotenti ad alluvioni, frane ed esondazioni, restando esterrefatti di fronte a danni così ingenti e, purtroppo, anche alla perdita di tante vite umane. “Proseguono le ricerche della nonna e del nipotino di cinque mesi dispersi nel pisano”, sono i titoli più recenti, in riferimento alle vittime trascinate dalla furia di un modesto torrente ingrossato dall’ennesima “bomba d’acqua” che ha colpito l’Emilia-Romagna, la Toscana e le Marche. Situazioni che si ripetono con drammatica ciclicità e sicuramente non imputabili solo alla causalità o all’eccezionalità del momento. Certo il cambiamento climatico ed i suoi effetti meteorologici devastanti sono un punto fermo, ma bisognerebbe interrogarsi sulla causa primaria di tali sconvolgimenti, soprattutto se un evento si ripete nella stessa località a distanza di anni ed in maniera identica.
Non si può e non ci si deve limitare a fare il triste bilancio dei morti, dei campi allagati, dei raccolti distrutti, delle case e degli oggetti di tutta una vita imbrattati di fango, degli esercizi commerciali e manifatturieri in ginocchio, ma occorrerebbe interrogarsi sul perché le istituzioni locali e nazionali non sono state capaci di intervenire per tempo e mettere in sicurezza il territorio. Dati recenti del WWF attestano che in Italia sono presenti almeno 11.000 barriere, tra dighe, briglie e traverse e sottolineano come tante siano obsolete e, pertanto, inutilizzabili, nonostante gli obiettivi della Strategia Europea per la biodiversità prevedano di riconnettere e riqualificare, anche attraverso la rimozione di barriere, almeno 25.000 km di fiumi in Europa. È notorio quanto il territorio italiano sia ad alto rischio sismico ed idrogeologico, ma si continua a “consumare suolo” mediamente per 35 ettari al giorno, dalla riduzione delle aree di esondazione naturale, alla canalizzazione e al tombamento dei corsi d’acqua.
Nessuna meraviglia che si sia ripetuto purtroppo, in questi giorni, quanto già successo nel 2023 e nelle stesse regioni. L’Emilia-Romagna, nonostante l’approvazione nel 2017 di una legge regionale sulla tutela e l’uso del suolo che mirava a ridurre il consumo a zero entro il 2050, ha visto in questi ultimi anni un continuo aumento di sfruttamento sconsiderato, tanto da occupare il terzo posto per “suolo consumato” e il primo posto per occupazione di aree a rischio idrogeologico, come emerso dall’ultimo rapporto di ISPRA. Tornano in mente i vecchi “sussidiari” delle elementari (una sorta di libro-summa di base per le scuole primarie) in cui, nella sezione dedicata alla storia, si introducevano le civiltà fluviali, indicandole come la culla della civiltà (4000 anni a. C.) e sottolineando la valenza dei grandi lavori di ingegneria idraulica e l’utilizzo del territorio in armonia con i cicli naturali. Non è un caso che il verbo che più torna in qualsiasi attuale piano di intervento sia “renaturalizzare” i corsi dei fiumi, in contrapposizione all’artificializzazione, appunto, operata dall’uomo.
La Nature Restoration Law (normativa recentemente approvata dall’Unione Europea) si prefigge il ripristino e la conservazione degli ecosistemi naturali degradati entro il 2050; ma il WWF denuncia che il Progetto (solo per citarne uno) di rinaturazione del Po, inserito nel PNRR per 357 milioni di euro e che prevede 56 interventi nel bacino padano coinvolgendo Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, procede a rilento, “ostaggio dei pioppicoltori che hanno ottenuto lo stralcio di parte delle aree fluviali che sarebbero dovute essere rinaturalizzate”. È evidente che, di fronte al persistere di gestioni inadeguate, non si possano più tollerare ritardi sia nell’azione di messa in sicurezza del territorio, di ripristino degli ecosistemi e del corso naturale dei fiumi e torrenti, sia in una più ampia progettualità di adattamento al cambiamento climatico.
Certo mancano le risorse per la prevenzione e pianificazione, ma basterebbe pensare a quanto si spende inutilmente per tamponare le continue emergenze ed a quanto sia più drammatico dover subire altri danni, o peggio restare impotenti di fronte alla morte causata da terremoti, frane e alluvioni. “Ho ripassato//Le epoche//Della mia vita//Questi sono//I miei fiumi” scriveva Ungaretti in una trincea durante la Grande Guerra. Nella lirica (“I fiumi” 1916) il poeta ripercorre la sua vita dalla nascita fino al momento in cui sta scrivendo. Quattro momenti (nascita, infanzia, giovinezza, guerra) e quattro fiumi (Serchio, Nilo, Senna, Isonzo) strettamente legati tra loro e l’uno connotato dell’altro. L’Isonzo, in particolare, che sembra portare con sé ed in sé tutti gli altri, è quello della guerra vissuta (“i miei panni sudici di guerra”), della Natura violata, dell’uomo reificato e “mutilato” proprio come l’albero dell’incipit. Attraverso la loro acqua “scorrono” i sentimenti, i ricordi, le sensazioni, insomma la sacralità stessa della vita e della Natura, per cui tutti dovremmo adoperarci.
Adele Reale
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