PALERMO – Se un giornalista intervistasse oggi la gente chiedendo “Quali sono le virtù cardinali?”, molti non saprebbero rispondere. Il testo “Le virtù cardinali” (Laterza, Bari, 2017, € 9), scritto da Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca, ha il merito di riportare l’attenzione sul poker di virtù – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – definite cardinali poiché costituiscono i “cardini”, i pilastri di una vita saggia e buona.
Negli ultimi tempi, la loro importanza esistenziale è stata smarrita e ne è stato equivocato il loro vero significato. Questo vale soprattutto per la prudenza e la temperanza. Come sottolinea infatti il compianto professor Bodei: “Nel linguaggio comune la prudenza tende oggi a essere confusa con la cautela o la moderazione, ossia con una virtù modesta e quasi senile, carica di paure o incertezze. Per millenni essa è stata invece considerata come la forma più alta di saggezza pratica, quale capacità di prendere le migliori decisioni in situazioni concrete, applicando criteri generali a casi particolari”. Quindi la prudenza, a causa dello slittamento semantico subìto, è adesso connessa in modo riduttivo con la cautela ed è spesso collegata ad una valutazione di egoistico tornaconto personale. In realtà la prudenza dovrebbe essere identificata con la saggezza, da cui discerne, in ogni circostanza, il nostro vero bene, e sceglie poi i mezzi adeguati per attuarlo. Di origine latina, la parola è connessa al verbo vedere, e il prefisso “pru” (contrazione da pro) indica ciò che è posto davanti nello spazio o prima nel tempo. Essere prudenti significa allora potenziare le proprie capacità visive per pianificare una scelta, cogliendone tutte le implicazioni future e soppesando con intelligenza rischi e implicazioni.
Ecco ancora Bodei: “Si tratta dunque della virtù deliberativa per eccellenza, che pone chi la pratica in condizione non solo di discernere il bene dal male, ma anche di prepararsi per il futuro a partire da un presente che ha fatto tesoro degli insegnamenti del passato. Essa è quindi un potente antidoto alla precipitazione nell’agire, al fanatismo e all’odio”. La temperanza è la virtù della pratica della moderazione. Nel mondo ellenico era intesa come “giusto mezzo”, con il termine che i latini tradussero poi con mediocritas. Ma oggi nella parola italiana “mediocrità” c’è solo una connotazione negativa. Per Aristotele invece la temperanza era il giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità e veniva posta accanto al coraggio, alla liberalità, alla magnanimità, alla mansuetudine e alla giustizia. Oggi la parola “temperanza” è quasi estranea dal vocabolario quotidiano; ed è sicuramente controcorrente, forse perché allude a un’etica del limite, legata all’autocontrollo, alla padronanza dei desideri e al senso della misura. La temperanza comunque ha poco a che fare con l’inibizione, al contrario è forza, è misura che rende armonica la vita; è attuazione dell’ordine, dell’equilibrio all’interno dell’uomo. “La temperanza è da intendersi – sottolinea ancora Bodei – non tanto come continenza, autocontrollo della volontà sulle passioni e i desideri, quanto come accordo dell’anima con sé stessa. In tale armonizzazione si raggiunge l’equilibrio degli opposti”.
Michela Marzano sollecita poi a riflettere sulla fortezza, secondo Aristotele giusto mezzo tra viltà e temerarietà: “Il coraggio consiste, prima di tutto, nel nominare la paura, nel riconoscerla; in un secondo momento, nel trovare un modo per attraversarla; e, infine, nel trovare i mezzi e la possibilità per agire, nonostante si continui ad avere paura”. E nell’evidenziare le caratteristiche della fortezza, la Marzano offre considerazioni davvero illuminanti: il forte è capace di rinunciare al conformismo, all’applauso immediato, è capace di fare delle rinunce e, se è il caso, di disobbedire. Perché, come esortava anche Hanna Arendt: “Il coraggio è necessario ogni giorno, sia che si tratti di votare in Parlamento, di punire un alunno indisciplinato, di decidere come educare i propri figli. Ci vuole sempre il coraggio di pensare con la propria testa. E il male nasce nel momento in cui si smette di farlo e si obbedisce automaticamente agli ordini, a prescindere dal loro contenuto”. Oggi più che mai allora la fortezza è una virtù centrale nell’agire individuale e in quello sociale e politico: nell’agire individuale conferisce spessore, perseveranza, tenacia; nell’agire pubblico è energia protesa a vincere la paura della violenza e del male, ma anche energia per opporsi all’ingiustizia.
Infine Salvatore Veca, nel suo saggio sulla giustizia, ricorda – anche lui citando Aristotele – che la giustizia è stata una delle virtù etiche per eccellenza, e comprendeva il rispetto della legge, la giustizia politica, la giustizia intesa come equità. Cita poi il filosofo statunitense John Rawls che, nel suo saggio “Una teoria della giustizia”, afferma: “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate e abolite, se sono ingiuste”. E, con l’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, Veca conclude la sua riflessione includendo nell’idea concreta di giustizia anche i diritti economici e sociali, pur consapevole della difficoltà attuativa di una giustizia globale. Infatti, solo la percezione di un rapporto di fraternità civile tra gli esseri umani condurrà alla realizzazione concreta della giustizia, virtù cardinale per eccellenza. Ma perché a ciascuno sia dato il suo – “unicuique suum” scriveva Cicerone – la strada è davvero ancora tutta in salita. E non è facile trovare uomini di buona volontà desiderosi di percorrerla.
Maria D’Asaro
Lascia un commento