PERUGIA – Non solo la magistratura italiana con sentenza definitiva, ma ora anche la Corte di Strasburgo, alla quale si erano appellati i dirigenti del Getty Museum di Malibù (California) ha dichiarato che la scultura del Lisippo di Fano debba essere restituita all’Italia. Cosa si inventeranno adesso i dirigenti museali californiani per trattenere ancora, del tutto illecitamente per le leggi italiane ed europee, la statua in bronzo pescata al largo di Fano il 14 agosto 1964 ed attribuita appunto al grande artista greco (od alla sua scuola)? Nel ricorso – respinto dai giudici europei – gli statunitensi sostenevano che il prezioso reperto fosse stato pescato in acque internazionali (non italiane, dunque) e che il bronzo fosse stato acquistato in Svizzera. Motivi di opposizione seccamente respinti dalla corte.
Che la statua fosse finita nelle reti del peschereccio “Ferruccio Ferri”, dell’armatrice Valentina Magi, è risultato, senza ombra di dubbio, dai processi celebrati prima davanti alla pretura di Gubbio e, successivamente, pure di fronte alla magistratura di Pesaro. L’equipaggio dichiarò che le reti furono tirate a bordo all’altezza degli “scogli di Pedaso”: territorio italiano o internazionale? il particolare finisce, comunque, per non avere alcuna rilevanza perché il porto nel quale la barca era approdata per il rientro fu Fano e dunque il reperto, di fatto, diventa proprietà dello Stato Italiano. Il capo barca Romeo Pirani, i marinai Derno Ferri, Athos Rosato e Durante Romagnoli, Valentino Carrara, Nello Ragaini, Benito Burrasca hanno sostenuto che il pescato provenisse da territorio italiano (a 43 miglia ad est dal Monte Conero, ad una profondità di meno di 80 metri) e che venne, per l’appunto, sbarcato nel porticciolo marchigiano. La statua – priva dei piedi, forse bloccati nel fondale marino dopo lo strappo delle reti – era rimasta impigliata sulle braccia. La scultura, ancora ricoperta da sedimenti e incrostazioni, sulle prime era finita nel fondo scala della abitazione dell’armatrice, poi interrata in un campo di cavoli, sempre a Fano.
Un industriale di Gubbio, amante dell’arte, venuto a sapere – chissà per quali vie – del ritrovamento, acquistò il reperto (tre milioni e mezzo di lire dell’epoca) e lo diede poi in custodia ad un prete, sempre a Gubbio. La perpetua del sacerdote, forse scandalizzata dalla nudità della statua ospitata nella casa del parroco, denunciò in modo anonimo che la canonica ospitasse un reperto ai carabinieri. Ne scaturì un processo con una assoluzione per insufficienza di prove in primo grado, con condanne lievi in appello e con proscioglimento pieno finale di nuovo in Corte d’Appello, dopo il rinvio della Cassazione per un ulteriore giudizio. Nelle more del processo la statua (alta un 1,51) era stata ceduta ad un antiquario milanese rimasto sconosciuto.
Di certo nel 1971 l’opera d’arte fu acquistata da un commerciante di Monaco di Baviera, Heinz Herzer. Nel frattempo – la scultura, ripulita e lucidata, era stata attribuita a Lisippo – si era scatenata una vera e propria caccia al bellissimo bronzo, sia sul mercato nero sia da parte, in maniera insistita, del Metropolitan Museum di New York che del Getty Museum. Quest’ultimo si aggiudicò il braccio di ferro, nel 1977, versando 3,98 milioni di dollari. Una volta arrivato a Malibù il bronzo chiamato in precedenza l’Atleta di Fano o l’Atleta vittorioso o, ancora, il Lisippo di Fano, era stato ribattezzato l’Atleta del Getty o il Giovane vittorioso (un modo per far dimenticare la vera e documentata provenienza dell’opera?).
Adesso però gli americani sono stati messi all’angolo dalle sentenze e, si spera, che restituiscano il prima possibile la statua all’Italia. Anche il governo italiano, su questa vicenda, dovrà far sentire, in maniera chiara e netta, la propria voce. E non solo per l’Atleta di Fano (il Metropolitan di NY espone ancora il carro di Monteleone di Spoleto, anche questo, illecitamente detenuto).
Elio Clero Bertoldi
Lascia un commento