PERUGIA – I talebani sono tra noi. Al primo sguardo non siamo in grado di individuarli, perché non indossano gli abiti tradizionali dei paesi asiatici, cioé gli ampi e lunghi camicioni sino al ginocchio (kurta), i pantaloni larghi (churidar), i sandali (oggi gli sneakers, preferibilmente bianchi o neri), i cappelli (pakul o pakol, che siano). Li riconosciamo soltanto quando parlano. Come il giovane calciatore di una squadra dilettanti dell’Umbria che ha messo a nudo la sua anima talebana nel corso di una gara ufficiale del campionato di Prima categoria (Coppa Primavera), quando ha apostrofato l’arbitro, una donna, come avrebbe potuto fare un mullah integralista o uno studente di una madrassa coranica.
La partita si stava disputando sul campo sportivo di San Gemini, la cittadina nota per le sue acque minerali. Il calciatore, emulo – forse suo malgrado – degli islamisti più estremisti, indossava la casacca della formazione ospite, il Real Avigliano Umbro, centro dove si può ammirare la “foresta fossile” in vocabolo Casaccia di Dunarobba e che ospita anche la “Città della Musica”, di Giulio Rapetti, in arte Mogol, paroliere e discografico di fama internazionale e noto pure per il suo fortunato (anche per noi) sodalizio artistico con Lucio Battisti. Ecco quanto ha detto – come si legge nel comunicato della Lega Nazionale Dilettanti della Figc dell’Umbria, emesso sulla scorta del verdetto del giudice sportivo, avvocato Marco Brusco – il calciatore sanzionato. “Al termine della gara, dopo aver stretto la mano all’arbitro in maniera sarcastica, proferiva al suo indirizzo reiterati insulti sessisti, dichiarando di vergognarsi del fatto che un arbitro donna potesse aver diretto una sua partita. Nonostante i compagni di squadra cercassero di allontanarlo, proseguiva con gli insulti invitando la predetta a smettere di arbitrare in quanto il calcio non è per le donne”.
E’ palese come queste parole (col giocatore piccato persino dal fatto che ad arbitrare una “sua” partita fosse una donna, frasi penose neanche si sentisse al livello di un campione quale Messi o Ronaldo, che peraltro non si sarebbero mai permessi di criticare un arbitro in gonnella) risultino pesantemente discriminatorie e figlie di una visione del mondo maschilista, non più accettabile, oggi ed in una comunità che si dichiara civile. Qualcuno potrebbe obiettare che siamo di fronte ad un piccolo episodio di intolleranza (il giudice sportivo lo ha sanzionato con dieci giornate di squalifica), ma sarebbe una interpretazione fuoriluogo e sbagliata. Che sottovaluta la portata del fenomeno e dei concetti espressi dal calciatore tetragono, ottuso, prodotto di una mentalità arretrata e superata.
Le sue, infatti, idee, che crescono nei campi (incolti) di chi ritiene – proprio come i talebani – che la donna sia un essere inferiore, non in grado di vivere autonomamente, ma di dover venire soggiogata dal maschio, o nel migliore dei casi, esserne protetta. Vengono dallo stesso seme dal quale spuntano la presunta superiorità, l’avversione, l’idiosincrasia per il mondo femminile, per la donna ritenuta un “oggetto” del quale si può disporre a piacere, quando se ne sente il desiderio, quando se ne avverte l’uzzolo, come si vuole, per poi, perché no?, sbarazzarsene, magari anche uccidendo, come purtroppo si sta verificando in Italia, con i frequenti, orrendi femminicidi (72 dall’inizio dell’anno).
Delitti che rappresentano la punta dell’iceberg, a sua volta sostenuto da una mentalità più diffusa e immersa nella società. Ecco perché questo modo di pensare, macroscopicamente errato e fuori dal tempo, va stroncato, annientato, estirpato sul nascere. Anche nelle forme – solo apparentemente – più sfumate, più morbide. Le dieci giornate di “stop” rappresentano, forse, una “punizione” non abbastanza adeguata. L’attaccante – che pare pretendesse un calcio di rigore a favore e che, invece, fosse stato ammonito per simulazione – avrebbe meritato la radiazione. Con la più drastica delle pene sportive si sarebbe inviato un messaggio, si sarebbe dato un esempio più marcato, probabilmente più conforme alla mentalità non solo all’interessato, ma a tutti coloro che non si rendono conto, per supponenza o crassa ignoranza, che la parità di genere è una conquista, un frutto del progresso civile.
Splendida la risposta indiretta al calciatore-talebano, che l’arbitro in gonnella, Diletta Ciommei, 21 anni il prossimo 25 settembre, iscritta all’Aic, sezione di Terni, ha postato su un social: “Calzo sia i tacchi, sia i tacchetti. Posso correre come un uomo, posso far rispettare le regole del gioco a ventidue persone contemporaneamente. Posso decidere se fischiare o meno. Posso farlo e so farlo. So farlo perché studio e mi alleno. Non perché sono uomo o donna”.
Due a zero e palla al centro. Talebani di casa nostra mandate a mente questa lezione. Scolpitela, anzi, nei vostri cervelli da trinariciuti. Forse siete ancora in tempo a recuperare un minimo di sensibilità umana. Di intelligenza, tout court.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, l’ingresso in campo dell’arbitro Diletta Ciommei della sezione di Terni
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