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La bella Connie, amata da Pavese e Kazan

di | 2022-01-16T07:27:35+01:00 16-1-2022 6:15|Personaggi, Sezione 4|0 Commenti

PERUGIA – Capelli biondi, occhi nocciola, seni sodi, corpo snello, sensuale. Che fosse uno schianto, pericolosamente e terribilmente bella, Costance Dowling (1920-1969), Connie, per gli amici, non c’è alcuno che avanzi dubbi. Sulla sua personalità, sul suo caratterere, sulla sua visione del mondo, sul suo modo di essere invece, l’incertezza regna sovrana. A darne una lettura non solo diversa, ma opposta, agli antipodi, due suoi amanti: per Elia Kazan (1909-1999), regista di fama, che allacciò con lei una relazione per dieci anni (ma senza mai abbandonare la moglie, Molly), Connie rappresentava la sessualità, la carnalità, la sensualità; lo scrittore e poeta Cesare Pavese (1908-1950), al contrario, descrive la statunitense – dopo un flirt durato un mese – come, quanto meno all’inizio, dolce e sensibile. Da trascorrerci tutta la vita. Da sposare. Una donna, due volti.

Connie, nata a New York, coltivava sin da minorenne la passione per il canto e per il teatro. Aveva iniziato come ballerina di fila, a Broadway. Quando incontrò Kazan, allora alla soglia dei trenta anni, lei aveva appena 18 anni. Tra alti e bassi la loro frequentazione andò avanti per due lustri. Il regista aveva preso in affitto per l’amata un appartamento: di giorno pranzava con la moglie, la notte la trascorreva con Connie. Un rapporto passionale, carnale, puramente sessuale, a sentire il regista. Lei sperava, in cuor suo, che Elia le affidasse una parte in uno dei suoi film e la lanciasse nel firmamento della celluloide (fu lui a scoprire Elisabeth Taylor e Audry Hepburn, oltre a Marlon Brando e James Dean), ma lui non l’accontentò mai. Forse per gelosia: non intendeva dividere con alcuno una bellezza talmente eccitante, sorprendente, esplosiva. La “liaison” si interruppe, per qualche mese, quando Samuel Goldwin chiamò l’attrice alla MGM. Ma si riaccese subito, per l’uno e per l’altra. Fu lei, alla fine, con poche parole vergate in una missiva, a troncare la tresca, probabilmente perché il regista non voleva separarsi dalla consorte: “Perché non impari a comportarti da uomo? Dimenticami!”.

Connie con Cesare Pavese

Poche settimane più tardi, correva il 1947, Connie e sua sorella minore Doris, anche lei attrice, forse meno bella, ma di maggior talento, si trasferirono, lasciando le luci di Hollywood, in Italia. Dove rimasero fino all’estate del 1950 girando, l’una e l’altra, diversi film. Fu la notte di San Silvestro del 1949 che Connie fu presentata in un salotto romano, a Cesare Pavese. La scintilla tra i due scoccò, tuttavia, agli inizi di marzo a Torino, in un altro incontro casuale a casa di amici comuni. Cesare e Connie si regalarono una breve vacanza a Cortina. Il poeta, scrisse, in quei trenta giorni (dall’11 marzo al 10 aprile) dieci poesie – due in inglese, otto in italiano, tutte datate, ritrovate (dopo il suicidio di lui) chiuse in un cassetto della sua scrivania negli uffici della Einaudi, per la quale lavorava – che narrano l’esplosione dell’amore, e pian piano, l’allontanamento, il distacco e la fine. “Venuta di marzo“, “screziato sorriso“, “sei la luce e il mattino“ le scriveva all’inizio; quindi “la speranza si torce”, “è buio il mattino che passa senza la luce dei tuoi occhi”, “un giorno lontano eri l’alba”; per poi approdare all’angosciante, funereo, lugubre: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

Lei, rientrata a Roma, non rispose alle lettere, pure numerose, che lui continuava ad inviarle. Quando Cesare seppe che Connie si era legata ad un attore italiano, capì che il silenzio di lei significava un rifiuto senza appelli. Tranciante. Definitivo. Il 27 agosto 1950 – quattro mesi dalla fine dell’idillio – nella stanza 346 dell’Hotel Roma, a Torino, Pavese ingurgitò una dose esagerata di sonniferi. Sul comodino, accanto ai “Dialoghi con Leucò” (una delle sue opere) lasciò un biglietto: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” L’idea del suicidio, in verità, per il poeta e scrittore non era una novità e permea tutto il suo percorso letterario e di vita. Probabilmente dai tempi del Liceo (il D’Azeglio, dove aveva avuto per amici e compagni di scuola Leone Ginsburg, Tullio Pinelli, Giulio Einaudi), ma pure nel periodo partigiano ed in quello degli anni dell’insegnamento e delle traduzioni dei grandi narratori statunitensi. Forse il fallimento della storia con Connie (l’ennesimo per lui bruciato dai “no” della partigiana Tina Pizzardo, dell’allieva e scrittrice Fernanda Pivano, di Bianca Garufi) potrebbe aver rappresentato la classica goccia che provoca il traboccare del vaso. Pavese aveva lasciato un pensiero chiaro: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nullità”.

Quando seppe del suicidio e lesse i giornali e lo sgomento che quel tragico episodio aveva suscitato non solamente in Italia, la Dowling – che Pavese aveva definito “la più dolce e la più terribile” delle donne – aveva commentato: ”Non sapevo fosse uno scrittore così famoso”. Qualche anno fa un biografo statunitense, che aveva intervistato il nipote (figlio di Doris) ed uno dei figli dell’attrice e recuperato molti documenti inediti, ha rivelato che Connie, ritiratasi dalle scene e sposatasi col regista Ivan Tors, dal quale aveva avuto quattro figli, si era suicidata a 49 anni, anche lei con i sonniferi, mentre per anni la sua morte, avvenuta a Los Angeles, era stata ufficialmente motivata con un improvviso arresto cardiaco. Kazan parlò a lungo di Connie (dedicandole all’incirca duecento pagine) nella propria biografia (“Una vita”, pubblicata nel 1988) e, lasciò un riferimento, scarno, anche di Pavese: “Un bravo poeta con problemi sessuali”.

Elio Clero Bertoldi

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