NAPOLI – Da stratagemma per accontentare i palati dei nobili napoletani a piatto testimone di tradizioni che allieta il gusto napoletano da decenni. Il sartù di riso è una vera istituzione nel capoluogo campano, un classico delle tavole partenopee che nasconde tra le pieghe della propria storia, una tradizione antica che pare fondersi con la materia di cui sono fatte le leggende.
Narrano le cronache che ai tempi di Ferdinando I di Borbone, nel XVIII secolo, la corte di nobili e amici del re non amasse per niente consumare il riso, privo del gusto ricco cui i notabili del tempo erano soliti soddisfare le proprie esigenze di gola.
Dopo aver sposato Maria Carolina d’Austria il menù regale cambiò radicalmente: la nuova consorte del monarca non amava particolarmente la cucina partenopea e venne così chiamata una task force di cuochi d’oltralpe che portarono nella capitale del Regno delle due Sicilie un bagaglio inedito di sapori e mescolanze, nuove alchimie di gusto che potessero risultare gradevoli anche all’esigente palato della regina consorte. Nacque così il sartù, un timballo di riso arricchito con uno strato di pangrattato e una miriade di ingredienti in modo da rendere meno anonimo lo “sciacquapanza”, la pietanza meno gradita dalla corte. Piselli, uova sode, funghi, fior di latte, pezzetti di carne sono solo alcuni degli ingredienti che gli chef, a seconda dei gusti personali di chi dovrà mangiare la pietanza, aggiunsero al timballo di riso. Un giusto compromesso per un popolo che, nonostante conosca il riso dal XIV secolo, era solito usare il prodotto delle graminacee soltanto in caso di malattie intestinali.
Secondo l’analisi etimologica il nome deriverebbe da “sourtout” cioè mantello e farebbe riferimento al ruolo avvolgente svolto dal pangrattato che come un soprabito avvolge il cuore di riso e altri ingredienti. Molto gradita è anche la versione rossa, piena di zeppa di gustoso ragù napoletano.
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