Questa scuola non s’ha da fare né quest’anno, né mai: potrebbero suonare così le parole del Ministro dell’Istruzione e di buona parte degli italiani che si dichiarano allibiti della scelta organizzativa di un istituto scolastico romano di collocare gli utenti in determinati plessi in relazione al loro ceto sociale.
Parrebbe dunque, stando a una lettura superficiale del PTOF, cioè del documento attraverso il quale ogni istituzione scolastica presenta la sua organizzazione e l’offerta formativa, che gli alunni siano accorpati in un plesso piuttosto che in un altro in funzione del reddito e della professione dei genitori. Quindi plessi per ricchi e ricchissimi e plessi per poveri e poverissimi.
La notizia è saltata agli occhi di qualche genitore che, dovendo iscrivere il figlioletto a scuola, ha visionato il sito web della scuola: “Com’è possibile – si sarà chiesto – che nel XXI secolo si formino classi di serie A e classi di serie B? Com’è possibile che gli alunni di cittadinanza non italiana siano allocati in una sede del quartiere popolare?”.
E in poco meno di niente è divampato il caso della scuola “esclusiva” e non “inclusiva” che ha riempito pagine di quotidiani e chat. Una notizia che ha avuto, dunque, un’ampia risonanza, fino a diventare pretesto di una diatriba politica piuttosto che pedagogica.
La scuola, da parte sua, ha chiarito di non discriminare nessuno tanto che, tra i figli dei ricchissimi, ci sono anche i figli dei loro dipendenti (colf, badanti, autisti…) e si dice pronta ad accogliere tutti. In ogni caso ha immediatamente provveduto a rimuovere il documento e a ripubblicarne uno depurato da quelle frasi infelici.
Tuttavia una lettura più attenta del PTOF potrebbe alleggerire la posizione dell’istituto che in quel documento metteva l’utenza in relazione all’ubicazione territoriale dei plessi. In altre parole, va da sé, che in un quartiere popolare e periferico l’utenza scolastica sia diversa rispetto a quella di un quartiere residenziale.
Chi è nel mondo della scuola, ma anche per chi non lo è, sa bene che ci sono profonde differenze tra un istituto e un altro, talvolta anche tra una classe e un’altra. Una scuola romana dei Parioli sarà diversa da quella dello Zen di Palermo. È innegabile. Allora perché stupirsi di un’istituzione che rende trasparente una situazione che è consolidata in altre scuole da oltre un cinquantennio? Ingiustamente.
Se una simile organizzazione esiste non è forse il risultato di una richiesta da parte dei genitori? La scuola dell’autonomia, prodotto della nuova organizzazione sociale, non ricalca forse il modello aziendale piuttosto che quello pedagogico? Certamente sì, persino nella terminologia: dirigente anziché direttore o preside, utenza piuttosto che bambini e ragazzi, DSGA, GLI, RAV, PTOF, CdV…
C’è da indignarsi dunque non solo per quella scuola ma per tutte quelle scuole che non attuano gli interventi necessari per accogliere, integrare e includere i ricchi e i poveri, i bravi e i meno bravi, chi può pagare la mensa e chi si porta il pasto da casa, i cristiani e i musulmani, gli ebrei e gli induisti, i normodotati e i plusdotati, gli svantaggiati e i portatori di handicap, i meridionali e i settentrionali.
C’è da indignarsi per questa società che discrimina i loro padri e le loro madri, i giovani e gli anziani, chi veste in jeans e chi indossa il chador.
C’è da indignarsi per una classe dirigente che non riesce ad arginare la disoccupazione, l’esodo dei giovani dal sud, la fuga dei cervelli, che non investe abbastanza nella sanità e nell’istruzione, nella ricerca e nella cultura in genere. Una società così è destinata ad implodere.
C’è da indignarsi per tutti noi che screditiamo davanti ai nostri figli il valore della scuola, dello studio, delle sudate carte, del valore della democrazia e della cooperazione. Il valore del sacrificio e della rinuncia.
La storia ci presenterà presto il suo conto. E sarà salato.
Tania Barcellona
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