NAPOLI – Nel suo messaggio di pochi giorni fa al mondo della scuola, papa Francesco lo ha ribadito: “L’educazione è una delle vie più efficaci per umanizzare il mondo e la storia”. Ma come si fa a rendere più umana una generazione che si basa sulla soddisfazione della mediocrità? Sul raggiungimento parziale, sull’accontentarsi del poco? Basta che…
Ma basta cosa? Il posto fisso per dirla alla Checco Zalone?
Davide Rondoni scriveva: “Giratele, le scuole italiane e accanto allo splendore di persone impegnate ben oltre il dovuto troverete i segni fatali di una rovina, magari ammantata di sigle burocratiche. Rovina di un’idea e rovina di anime che non sono più educate, ma istruite, e perciò male istruite”. Cioè formazione approssimativa, infarcita di riferimenti al mondo del lavoro, orfano della bellezza che deriva dallo studio e dalla contemplazione di un’opera generata dallo spirito.
Alunni svogliati e superficiali, lontani da qualsivoglia idea di riscatto, tanto consapevoli dell’inutilità del gesto da presentarsi più o meno nelle stesse condizioni in cui si erano congedati l’ultimo giorno di lezione. Eppure promossi. Perché non c’è rivoluzione didattica che tenga se non c’è amore per il Destino di chi sta seduto dietro ad un banco. Non contano i progetti dai nomi altisonanti (Inclusione, Integrazione, Legalità Uguaglianza e chi più ne ha più ne metta), le sovrastrutture che puzzano lontano un miglio di burocrazia (dipartimenti al posto delle aree disciplinari, neanche fossero una dipendenza dell’università), gli orari prolungati fino al tardo pomeriggio (togliendo ai ragazzi ogni anelito di libertà) se poi non si insegna l’arte di imparare.
Intanto scopriamo che in Italia pochissimi tra quelli che hanno concluso il ciclo di studi superiori non ha raggiunto la sufficienza in italiano, matematica e inglese, con punte che sfiorano il 15 per cento. Possiamo ragionevolmente aggiungere, in base all’esperienza, che percentuali almeno analoghe riguardano le sufficienze tirate per i capelli e che dopo tredici anni di scuola fa i conti con estrema difficoltà. E allora viene da chiedersi che valore di mercato può avere un diploma raggiunto in questo modo? E se, come evidente, non ne ha, perché viene dispensato con tanta facilità? Perché far passare il principio che “un diploma non si nega a nessuno”, svilendo così il valore tanto di chi se lo è visto regalare quanto di chi se lo è sudato?
È la scuola della mediocrità dove non si cura il talento, ma la percentuale di promozioni: più è elevata, più il singolo istituto fa bella figura, rientra nei parametri europei, il dirigente è contento, dall’alto non arriverà alcuna contestazione. Invece, anche in queste settimane si sente parlare solo e soltanto di classi pollaio, dad (doveva essere la soluzione di tutti i mali, invece li ha moltiplicati), mascherine, distanziamento, green pass… Questioni serie, non c’è dubbio, ma che girano intorno al problema vero dell’educazione che con tutto questo c’entra poco perché, riprendendo papa Francesco, “l’educazione è soprattutto una questione di amore”.
L’educazione è uno sguardo, è sostenere il cammino dell’alunno, è condivisione dell’essere, è lasciar libero il passo perché, in fondo, già lo compie in compagnia. Libertà è, appunto, per dirla alla Gaber, partecipazione, non intromissione, non sostituzione come in molte famiglie spesso si fa. Non permettere al figlio che possa sbagliare lui, che possa inciampare lui che possa imparare lui ma alleggerire il peso, trasmettere un’esperienza non fargliela vivere, assurdo. Il dramma di questi tempi, della scuola nello specifico, è creare un percorso, un viaggio in cui il protagonista non è l’alunno ma l’insegnante o, come accade anche in molte famiglie, i genitori. È di sicuro una crisi a livello globale, la scuola può poco di fronte alla deriva educativa, ma affrontare il problema del sapere, del conoscere, dell’esperienza del completamento educativo non può non essere fatto perché in classe, come a casa, solo uno “sguardo” educa.
Innocenzo Calzone
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