RIETI – “Gente senza storia – Immagini del mondo contadino in Sabina” (ed. Formichiere, seconda ristampa) con foto di Roberto Lorenzetti e “Le indie di quaggiù – Il mondo contadino in Sabina tra Ottocento e Novecento nello sguardo dei fotografi Giuseppe Primoli, Filippo Rocci, Paul Scheuermeier, Antonio Semerano ed altri”, una accurata ricerca fotografica d’archivio di Lorenzetti. Hanno dialogato amabilmente al Museo Archeologico del Cicolano, a Corvaro di Borgorose, la direttrice Francesca Lezzi, l’autore e Federico Fioravanti, giornalista e ideatore del Festival del Medioevo a Gubbio. Nella prefazione al primo libro le parole di Ansel Adams, fotografo ambientalista americano (San Francisco 1902 – 1984): “Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito e le persone che hai amato”.
Adams è stato uno dei maestri della fotografia del XX secolo, uno dei padri fondatori della fotografia paesaggistica, un innovatore le cui idee ed il cui stile sono ancora attuali. La sua prerogativa, come in questi due libri, è il bianco e nero. Per scattare una bella foto basta la tecnica, ma per immortalare uno stato d’animo, inserendolo contemporaneamente nel suo contesto, ci vogliono occhio, cuore, anima e a volte un po’ di fortuna nel cogliere l’attimo giusto. In questi due libri tecnica e anima si fondono, in una accurata ricerca antropologica.
La prima pubblicazione di “Gente senza storia” risale al 1985, le foto sono a tema e rappresentano l’ambiente, la gente, il lavoro, le mani, l’interno delle case, la religiosità popolare, tra religione e magia, la festa e il gioco. Sembrano essere scattate in tempi e luoghi lontani, invece rappresentano il mondo contemporaneo (anni ‘70’ e ’80), nei piccoli paesi del territorio provinciale, a pochi passi dalla modernità, immortalando il mondo contadino reale. “Un mondo che non esiste più, nato come lettura del presente, si trova oggi ad essere testimonianza del passato – scrive Lorenzetti nella prefazione -. Nessuno vive più in quelle case, né lavora più la terra con quegli arcaici mezzi agricoli. Non incontreremo da nessuna parte donne con la conca in testa e i bambini in braccio, né guaritrici nei piccoli borghi, che al tempo garantivano una risposta ad una diffusa domanda di ‘magia’. E’ ormai anche impossibile sedersi nelle osterie, dove si dava voce a vecchie canzoni popolari intorno alle caraffe di vino, né è possibile assistere ad improvvisate sfide di morra”.
“La cosa che mi crea qualche disagio – continua – è che tutto questo è accaduto non nei tempi lunghi ai quali sono abituato nella ricerca storica, ma nell’arco cronologico di una parte della mia vita”. Vale per tutte le società contadine della montagna, dal Friuli al Piemonte, all’Europa, come risultato di un processo di trasformazione diffuso e attuale. Il tempo appena vissuto, il tempo passato e presente “è dentro di noi, insieme a chi ci ha preceduto, a chi abbiamo incontrato, ci ritroviamo a narrare storie locali tramandate dai nostri nonni, amici, persone che hanno attraversato la nostra vita, lasciando un segno, ispirandoci. Dobbiamo provare rispetto per un patrimonio di tutti e il modo migliore è vivere il presente, conoscere e rispettare il passato, i luoghi, le tradizioni da conservare, conoscere e far conoscere, valorizzando il proprio territorio, come il Cicolano, che ha subito un grande spopolamento in tempi brevi e non troppo lontani” replica Fioravanti (cicolano doc), ispirandosi a Jorge Luis Borges, scrittore, poeta, saggista e traduttore argentino: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges”.
Borges rinnega l’esistenza di un solo tempo “nel quale si concatenano tutti i fatti. Negare la coesistenza non è meno arduo che negare la successione”. Il titolo del libro “Le indie di quaggiù” è ispirato al modo in cui i gesuiti del XVI secolo definirono la precarietà e la diversità del mondo contadino, “stigmatizzato da arcaiche abitudini e superstizioni, ponendosi l’obiettivo della sua evangelizzazione, così come avevano fatto con gli Indios del nuovo mondo” puntualizza Lorenzetti, giacché la Sabina è stata un’area storicamente contadina e tale è rimasta fino agli anni ’70, quando nacquero i primi insediamenti industriali che modificarono radicalmente il tessuto sociale ed economico della popolazione, iniziando un processo di deruralizzazione (oggi al nucleo industriale di Passo Corese, c’è una filiale di Amazon).
I primi fotografi che si sono incontrati in questo mondo sono stati gli escursionisti che sullo scorcio dell’Ottocento amavano esplorare le montagne dell’alta Sabina e del Cicolano, come i viaggiatori inglesi, tedeschi e francesi del “Grand Tour”. Non solo immagini, ma indagini sulla popolazione con interviste dirette a Leonessa, Amatrice, Fara Sabina, immagini contadine ancora più antiche, con la filatrice davanti al camino, la trita delle fave con i cavalli, lo sciopero del bestiame nel 1920 a Rieti, con la foraggiatura forzata, la vendemmia, le lavandaie al lavatoio (luoghi di idillio dove gli uomini iniziavano a corteggiare le giovani donne), le processioni, la tosatura delle pecore. Per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento, i contadini non ebbero voce. Un po’ come i nativi americani, la loro cultura è nelle biblioteche delle Riserve, raccolta soprattutto da Dee Brown, le loro dichiarazioni durante i trattati (mai rispettati), non venivano riportate, finché verso la fine dell’Ottocento, non arrivarono i primi stenografi e fotografi. Ma questa è un’altra storia.
Due libri da sfogliare con il fazzoletto a portata di mano, perché è impossibile non commuoversi. Non siamo solo figli del nostro tempo, ma anche del tempo che fu dei nostri nonni e bisnonni, grazie a libri come questi, che tengono alta la memoria e l’attenzione.
Francesca Sammarco
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