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Raccolta delle olive, rito antico e faticoso

di | 2021-10-31T10:20:56+01:00 31-10-2021 6:05|Attualità, Sezione 2|0 Commenti

LEONFORTE (Enna) – I primi di novembre, subito dopo la festività dei morti, in tutte le case e casupole di Leonforte (in provincia di Enna) iniziava il gran fermento per la raccolta delle olive, su cui orbitava spesso il destino di molte famiglie. La vendita dell’olio, infatti, assicurava un lauto guadagno ai ricchi proprietari terrieri, lo stretto necessario ai piccoli possidenti e una manciata di litri d’olio agli “ultimi”, di verghiana memoria, per insaporire il frugale pasto quotidiano.

Gli uliveti si animavano, già al mattino presto, di suoni e colori: interi gruppi di uomini, chi con il passo svelto, chi con il passo pesante, chi rallegrato per quell’opportunità, si apprestavano a iniziare la giornata al soldo del padrone del podere che, secondo una consuetudine secolare, ne cedeva una parte in cambio della forza lavoro. Ore e ore di raccolta, di capi chini e corpi intrecciati ai rami, di canti e stornellate interrotte da un pasto frugale, spesso consumato ai piedi di un ulivo, dove nelle giornate più fredde si accendeva un fuocherello per intiepidire le mani intirizzite e arrostire una brancata di olive nerastre e amarognole che venivano poi strofinate sul pane e accompagnate da vino novello.

Al faticoso raccolto delle olive non si poteva sottrarre nessuno: uomini e donne, vecchi e piccini. Mani forti e coriacee, mani sottili e delicate, mani ferite e sanguinanti. I giovani si arrampicavano lesti e leggiadri e guidavano gli uomini che si trovavano in basso a percuotere i rami più alti con il viriante, una lunga pertica di legno, per far cadere le olive sul terreno dove venivano poste talvolta lenzuola ormai lise e rattoppate per facilitarne la raccolta. Le donne, ai piedi degli alberi, iniziavano a recuperare le olive, incitando i bambini a raccattare quelle che erano finite nelle crepe e o tra le zolle, a non disperdere nemmeno una di quelle “pepite” verdi e a riempire in fretta i panareddi.

Sotto il sole cocente dell’autunno siciliano, inzaccherati dalla pioggerellina o sferzati dalla tramontana gelida che arrossava i visi, screpolava le mani e intorpidiva le membra, si procedeva per intere settimane e talvolta oltre il Natale alla raccolta, interrompendo solo i giorni necessari, quando i contadini, erano impegnati nella semina della fava larga o dei ceci. Al termine della giornata, quando il sole allungava le sue ombre sul terreno, gli uomini trasportavano sulle spalle il prezioso fardello per rovesciarlo poi negli angoli delle case dove le donne si premuravano di rimuovere le pampine e i rametti o di selezionare le olive, di solito della varietà Giarraffa, da mettere in salamoia o nei panari sotto sale e avere cosi il companatico per tutto l’anno. La salamoia era impreziosita di aromi: finocchietto, aglio, peperoncino che rilasciavano note olfattive e gustative alle olive verdi, mentre le nere, per mantenersi nel tempo, venivano infornate.

Dopo giorni di raccolta, accumulato un certo quantitativo di olive, ci si recava al frantoio, comunemente chiamato nelle nostre parti trappitu, per la molitura delle olive. Era un luogo esclusivamente frequentato dagli uomini, i quali con occhio vigile controllavano che le proprie olive non venissero mischiate ad altre, magari di qualità più scadenti e che non ci fosse ammanco di olio. E si era in trepidante attesa per sapere “a quantu ì l’ugghiu”, un’espressione idiomatica per indicare la quantità di liquido ricavato per ogni quintale di olive. Si leggeva una nota di soddisfazione nei visi quando la quantità ottenuta era soddisfacente o superava quella di un altro, anche se era a tutti noto che con certe qualità di olive, tipo la rizza, c’era da aspettarsene poco rispetto alla nerva o alla virdisa che era una specie più tardiva nella maturazione. Spesso nel frantoio avveniva direttamente la vendita dell’olio il cui prezzo a cafisu era condizionato dall’abbondanza o meno di olive di quell’annata.

I compratori erano vecchi clienti che giungevano dalla vicina Catania o dai paesi limitrofi; l’olio odoroso veniva versato nelle damigiane di vetro per essere trasportato fino a casa e travasato nelle grandi giare, le quali venivano ricoperte da una pezzuola o una rete metallica sottile per far respirare l’olio e proteggerlo soprattutto dall’incursione dei topi. Dallo scarto delle olive macinate si ricavava il nuzzulu (sansa) che veniva stipato nei sottoscala o nei locali dove c’era il forno a legna per essere consumato come combustibile. L’odore intenso si sprigionava nella zona circostante e non di rado attirava i topi che sbucavano tra il nocciolino facendo impallidire le donne che lanciavano urla argentine in attesa che un “valoroso cavaliere” venisse a schiacciare il nemico con una scopa.

Si finiva tra le risate e lacrimoni scendevano sul viso impolverato di terra e sudore lasciando un rigagnolo a ricordare la fatica e l’attaccamento alla propria terra e ai suoi frutti buoni, dove spesso il buono era un’oliva strofinata sul pane fresco e un po’ d’olio dei racioppi, l’olio ricavato dalle olive cadute negli anfratti più difficili, nelle zone più impervie o sfuggiti durante il primo raccolto, che i più poveri andavano a raccattare previo consenso del proprietario dell’uliveto. Un olio qualitativamente meno pregiato, ma oro prezioso per chi si era spezzato la schiena.

Tania Barcellona

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