VITERBO – Cos’è oggi la musica? Una semplice forma d’arte? Uno svago? Forse, ma non solo. Per noi tutti la musica è essenzialmente la colonna sonora della nostra vita, di cui non possiamo fare a meno. Quando siamo tristi, un allegro motivetto ha il potere di farci tornare il sorriso, se abbiamo litigato con qualcuno a cui vogliamo bene, un brano nostalgico può aiutarci a capire quanto quella persona sia importante per noi. La musica riesce a trasmetterci forti emozioni, ci fa sognare, ci fa riflettere, ci fa venir voglia di agire aiutandoci a superare momenti difficili facendoci evadere dal mondo reale per entrare in un mondo nel quale rifugiarsi in momenti spiacevoli, lontani da sofferenze e problemi quotidiani.
Ognuno di noi ha una canzone preferita, a cui è particolarmente legato, perché ha un valore speciale, perché ci fa provare le emozioni più forti di qualsiasi altra. Con il passare del tempo alcune le dimentichiamo, ma altre non potremmo mai scordarle, resteranno per sempre nel nostro cuore come un ricordo indimenticabile perché in esse troviamo punti comuni con la nostra vita, che ci confortano e ci fanno capire che non siamo i soli a vivere una brutta esperienza, ma molti altri hanno provato le nostre stesse emozioni, rassicurandoci e aiutandoci ad uscirne.
Nel mondo della musica italiana, però, non ci sono solo canzoni malinconiche e tristi, ci sono anche quelle energiche, che danno la carica per affrontare tutto tanto che, al giorno d’oggi, parlare di musica significa fare i conti con la società attuale. Il rapporto tra musica e società consente di prendere in esame il sostantivo “comunicazione”. Ogni giorno siamo letteralmente assaliti da note musicali organizzate, basta accendere il televisore, entrare in un bar, in un aeroporto o in una sala d’attesa non avendo neanche la possibilità di scelta tra accettarla o meno, perché a differenza di un quadro o di un poster, la musica è fisicamente più invasiva riuscendo ad entrare nel nostro corpo al di là delle nostre intenzioni.
Negli ultimi cinquant’anni la canzone italiana ha vissuto momenti che l’hanno profondamente trasformata. Se nella prima metà degli anni Sessanta a dettare legge è il Festival di Sanremo, dove a farla da padrone è la canzone neomelodica zeppa di rime “cuore/amore”, verso la fine del decennio si comincia ad assistere a una timida rivoluzione. Sono sempre di più, infatti, gli artisti all’epoca definiti “capelloni” capaci di proporre canzoni con testi un po’ più impegnati. Su tutti i coraggiosi Giganti che nel 1967 hanno il merito, e soprattutto il coraggio, di portare al Festival la canzone pacifista che, probabilmente grazie al ritornello orecchiabile “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, riesce addirittura a piazzarsi al terzo posto dietro a “Non pensare a me” cantata da Claudio Villa e Iva Zanicchi.
Le cose cominciarono a scricchiolare e nei primi anni Settanta mentre Sanremo propone imperterrito le sue melodie nei festival alternativi la musica italiana comincia a cambiare. Si fanno largo cantautori cosiddetti “impegnati”, gruppi di progressive e di rock nostrano che, a fine decennio, comincia ad avere meno seguito. Una generazione di giovani, logorata da un decennio di violenza, vuole iniziare a divertirsi. Inizia il periodo del disimpegno che ha una regina indiscussa come colonna sonora: la disco-music della quale gli italiani sono maestri a scriverla e a suonarla, tanto che le nostre produzioni scalano le classifiche di mezza Europa. In tutto questo battere il ritmo, nella disco-music riesce a trovare un suo spazio una nuova canzone d’autore come Ruggeri, Fossati, Mannoia, Alice, Battiato, Vasco Rossi, Zucchero e molti altri che ancora oggi riescono ad essere presenti nelle classifiche che, dall’inizio del nuovo secolo, sono intrise di nomi nuovi, provenienti dai talent che, però, durano lo spazio di un paio di album e niente più.
Attualmente si stanno diffondendo molti generi come House, Dance, Electro-Dance, il cui testo è ripetitivo e senza un reale significato e la musica è prodotta spesso attraverso il computer. Ultimamente i giovani si sono sempre più avvicinati alla musica rispetto al passato. L’attuale generazione di giovani è molto diversa dalla precedente, sono cambiati soprattutto a causa della tecnologia: televisori, computer, cellulari e via dicendo, per quanto possano essere utili qualche volta, stanno prendendo posizioni troppo importanti nella vita di tutti i giorni. Cinquant’anni fa i dischi si acquistavano esclusivamente al negozio di dischi, oggi per procurarsi della musica si va in rete. Il mercato piange, alcune case discografiche investono, pur di mantenere un assetto tradizionale e storico, ma non c’è per un giovanissimo altro luogo dove ascoltare musica se non su internet.
La rivoluzione operata da youtube, che ha messo a disposizione di tutti noi perle rare e meraviglie di ogni sorta, ha sortito effetti diversi. Più in alto si va con l’età, in una immaginaria scala cronologica dai trenta in su, più youtube è fonte di ricerca maniacale, asservita al recupero di un passato a volte noto da svelare nuovamente, immaginato solo attraverso i vinili (un esempio su tutti: i concerti dei Beatles). Se quella scala si percorre però al contrario, scendendo dai trenta fino ai dodici anni circa (periodo in cui gli adolescenti iniziano, all’incirca, ad avere libero accesso dai genitori al mezzo), la musica cambia. E non è solo un gioco di parole. Non vi è ricerca, come si diceva precedentemente, ma casualità. I ragazzi attingono a volte per generi, quei pochi che conoscono e che vanno in tv al momento, altre volte per nome di artista.
Il mercato qui non piange, ma gode grandemente attraverso le visualizzazioni. I canali di youtube, personalizzati, aumentano, e la rete dà visibilità a prescindere, senza troppo filtro. Nascono gli youtuber, che in men che non si dica, entrano a gamba tesa nel circuito, accumulando clic e facendo le scarpe a Michel Jackson e a Bob Dylan. Naturalmente non tutto quello che gira intorno è spazzatura, anzi. Molti giovani artisti talentuosi con le condivisioni facebookiane, i likes, i canali streaming e youtube stesso, hanno avuto il meritato successo. Altre volte, sul podio, ci sono finiti bellocci dalla vocina più che comune, che si sono giovati di una presenza in video planetaria e su questa, grazie alla modalità televoto, costruito una carriera. In fondo, Tony Dallara (come tanti altri) aveva una gran voce, ma non essendo proprio un adone, avrebbe avuto davvero pochi clic. La fortuna di essere infilato in un 45 giri era anche questa.
I tempi cambiano. I modi anche. Da quello che emerge dai sondaggi, dallo screening delle loro playlist, dai discorsi che fanno, dai cappellini che indossano e dal linguaggio utilizzato poi nei temi e nelle espressioni confidenziali, l’attenzione musicale dei giovani, si rivolge ai cosiddetti “figli dei Talent show”, ragazzi vincitori di programmi televisivi, configurati come gare di canto, e balzati alla notorietà grazie al potente mezzo della immediata visibilità in tv e del televoto da casa: Alessandra Amoroso, Emma Marrone, Marco Carta, Marco Mengoni… Sono i preferiti soprattutto del pubblico femminile oppure a quella dei rapper, degli hip hopper e degli youtuber. È forse lo scenario più seguito, “quello che spacca”, per usare lo slang giusto, quello che senza filtro e senza indugio (anche troppo) dipinge (a detta loro) alla perfezione sentimenti e sensazioni di questa generazione. I nomi? Fedez, Emis Killa, J Ax, Salmo, Nitro, Gemitaiz, Benji e Fede…
E la canzone, che si muova in valzer o sulle righe di un rap, ci racconta sempre tutto in maniera impeccabile.
Adele Paglialunga
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