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La “Maria Maddalena” di Artemisia, pittrice ribelle

di | 2024-09-08T14:11:57+02:00 8-9-2024 1:25|Arte, Sezione 6|0 Commenti

PERUGIA – La tela si è salvata dalla terribile, distruttiva esplosione avvenuta nel porto di Beirut, in Libano, il 4 agosto di quattro anni fa. Il dipinto, appartenente alla “collezione Sursock”, ha riportato qualche danno, ma è stato restaurato, con grande cura e perizia ed ora è ammirabile nei locali del complesso monumentale francescano di Santa Chiara a Napoli (fino a gennaio del prossimo anno). Come l’opera sia approdata in Libano (i Sursock comunque sono un casato della più alta aristocrazia del “Paese dei Cedri” e legato da vincoli parentali con i Colonna di Roma ed i Serra di Cassano di Napoli) non risulta documentato. L’opera, appunto una “Maria Maddalena”, è di mano di Artemisia Gentileschi (1593-1656), tra le più brave e celebri pittrici della storia dell’arte e sarebbe stato ultimato tra il 1630-31, all’inizio del suo approdo a Napoli.

Il ritratto di Artemisia Gentileschi, eseguito dal pittore francese Simon Vouet

Di scuola caravaggesca, l’artista – che era figlia di Orazio Lomi Gentileschi, pisano di origine e pittore pure lui, amico stretto di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio – già a sette anni mostrava qualità importanti, seguendo evidentemente i lavori del padre. A dodici anni rimase orfana della madre, Prudentia di Ottaviano Montoni. E nel maggio del 1611, non ancora diciottenne (essendo nata l’8 di luglio), subì lo stupro, in casa propria, del maestro di pittura al quale il padre l’aveva affidata. Il cinico drudo fu Agostino Tassi – all’anagrafe Agostino Buonamici (1580-1644) di Ponzano Romano, detto “Lo Smargiasso” – un pittore con precedenti penali (mandante persino di omicidi), ma molto apprezzato in quel periodo in particolare per la prospettiva “trompe l’oeil”.

Il fattaccio ebbe, quali complici un tal Cosimo Quorli, dipendente della Camera Apostolica ed una domestica di casa Gentileschi, Tuzia. Dell’azione delittuosa ci resta, ben documentata, la dichiarazione resa – addirittura sotto tortura – dalla stessa Artemisia alle autorità poliziesche e giudiziarie. Quel giorno il Tassi chiuse la porta della stanza in cui i due si trovavano nell’abitazione della vittima in via della Croce, la spinse sulla sponda del letto, le chiuse la bocca tenendoci sopra un fazzoletto per impedirle di chiedere aiuto e di gridare e nonostante la ragazza, tentasse una vivace resistenza, riuscì a deflorarla. Solo qualche mese più tardi il padre denunciò i fatti con una querela diretta a papa Paolo V. Il ritardo venne motivato col particolare che il Tassi aveva promesso un “matrimonio riparatore” (tanto che per un periodo aggressore e vittima vissero “more uxorio” nel palazzo della ragazza), ma poi i Gentileschi scoprirono che “lo Smargiasso” aveva già una consorte e che quindi non avrebbe potuto impalmare la ragazza. Da qui l’azione penale.

Nel corso del procedimento, l’accusato ebbe la faccia di bronzo di sostenere che la ragazza era stata consenziente. E probabilmente fu per questa sfrontata difesa del Tassi, che la vittima, nel corso dell’interrogatorio, venne sottoposta ad un supplizio: i pollici delle mani legati con le cordicelle sottoposte a dolorosissime, violente trazioni e al rischio di venire stritolati dalla torsione di un bastone al quale le corde erano legate. Artemisia restò ferma, nonostante sotto tortura, sulle sue dichiarazioni. E il Tassi, alla fine venne condannato sia per lo stupro, sia per la corruzione di alcuni testimoni (portati – e prezzolati – a bella posta per sostenere le proprie tesi), sia per la diffamazione consumata in danno del padre della vittima, pure già suo amico e collega. Lo “Smargiasso” che all’epoca aveva 32 anni e godeva di protezione di casate romane importanti (i Rospigliosi, i Ludovisi, Lancellotti, lo stesso cardinale Scipione Caffarelli Borghese, di cui affrescava i palazzi), pur raggiunto dalla condanna, non subì neanche un giorno di carcere, esiliandosi volontariamente da Roma, per qualche tempo.

Artemisia, anche per sottrarsi alle chiacchiere della gente, si spostò a Firenze dopo aver sposato – a Romain Santo Spirito in Sassia – un pittore, Pierantonio Stiattesi (al quale diede i figli Giovan Battista, Cristoforo, Prudentia e Lisabella) e dove ottenne significativi riconoscimenti, tanto da essere ricevuta personalmente dal granduca Cosimo II e di venire iscritta all’Accademia delle arti del disegno (prima donna in assoluto a ricevere un tale prestigioso titolo).

Roma, Genova, Venezia, divennero altre tappe, prima di Napoli – che si trasformò in una sorta di seconda patria (tranne un viaggio in Inghilterra, chiamata dal re Carlo I, alla corte del quale era stato convocato quale “pittore reale” il padre Orazio) – dove Artemisia morì forse di peste. Fu sepolta in San Giovanni Battista dei Fiorentini, nel cuore di Napoli e la lapide – a conferma di quanto fosse già famosa in vita – riportava soltanto due parole “Heic Artemisia” (Qui Artemesia).

L’artista, che mostrò di possedere una forte personalità ed una buona cultura conobbe e frequentò i pittori più conosciuti e stimati del tempo (Van Dyck, Rubens, Vouet, Stanzione), ed anche scienziati e letterati (Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti, il giovane). Le viene riconosciuta una debolezza, molto femminile: amava gli abiti eleganti, soprattutto di seta e comunque di stoffe pregiate. Spesso raffigurate, nei dipinti, indosso alle donne effigiate, oltre che negli autoritratti.

Elio Clero Bertoldi

Nell’immagine di copertina, la “Maria Maddalena” dipinta da Artemisia Gentileschi ed ora esposta a Napoli

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