PERUGIA – L’astro che avrei voluto conquistare, quel 20 luglio 1969, non era certo la Luna, ma una studentessa straniera in vacanza – come me – a Marotta, sulla riviera marchigiana, alle foci del Metauro – che nasce, guarda il caso, dall’Alpe della Luna, sull’Appennino -, a poca distanza dal luogo, il guado di Serra Ungarina, dove Asdrubale Barca, fratello di Annibale venne ucciso in battaglia (il 22 giugno 207 a.C.), successo completo e decisivo dei romani, che diede un diverso indirizzo alla Seconda guerra punica.
L’argomento si rivelò un buon rompighiaccio, perché Ilde – così mi aveva detto di chiamarsi, presentandosi – accettò l’invito ad incontrarci in serata per seguire l’impresa lunare. L’argomento del giorno. Non era una valchiria, Ilde. Anzi. Piccola di statura, ma armonica nelle forme e con un visetto molto, molto grazioso. Capelli castani e occhi verde mare. Su quei due “fari” fantasticai sopra – non lo nego – tutto il pomeriggio.
Si presentò al “rendez-vous” con una camicetta chiusa fin quasi al collo ed una gonna che scendeva sotto il ginocchio. Sicura del fatto suo e dei suoi occhi: non aveva necessità di esibire le sue grazie, che io d’altronde avevo già apprezzato al mattino, mentre girava in costume tra gli ombrelloni.
Il bar, dove intendevamo seguire lo sbarco sulla luna, si riempì quasi subito. La televisione, allora in bianco e nero, trasmetteva le fasi del viaggio dell’Apollo 11. Tito Stagno conduceva la trasmissione, il collegamento da Cape Kennedy in Florida era affidato alla voce gracchiante di Ruggero Orlando. Nel bar, intorno a noi, tutti tenevano lo sguardo fisso sullo schermo e continuavano a vociare. Improvvisamente cadde il silenzio. “Ha toccato” – sentenziò Tito Stagno. Ribatté Ruggero Orlando: “Non ancora”. Valutammo con un sorriso lo scambio di battute tra i due: contava, piuttosto, che stesse scattando l’ora ics, il momento topico.
Quando fu evidente che il Lem (in codice: Eagle) avesse raggiunto il suolo lunare, le lancette segnavano le 22.17’, si scatenò una baraonda tra gli avventori giubilanti, che neanche un gol nel mondiale. Il tavolino al quale eravamo seduti, urtato da qualcuno più scalmanato degli altri, tremò come per una scossa di terremoto ed il mio boccale di birra si rovesciò, in parte, sui miei pantaloni. Ilde scoppiò a ridere. Io un po’ meno: ora avrei dovuto ordinare un altro bicchiere e, da universitario al terzo anno, dovevo invece centellinare le mie scarne risorse.
Per nascondere l’imbarazzo pescai un argomento letterario sul tema: l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e, nello specifico, il viaggio di Astolfo sulla Luna, fatto allo scopo di recuperare il senno del paladino, senza il cui contributo la guerra contro i mori non si sarebbe potuta vincere. Nulla sapeva Ilde del poema e si mostrò interessata. Rafforzando, in me, l’idea che l’argomento rappresentasse una buona carta da giocare. Partii col racconto. La mia professoressa di italiano del liceo, Neris Bòrea, sarebbe andata in solluchero. Parlai di Astolfo, figlio del re d’Inghilterra che, sul dorso dell’Ippogrifo (a sinistra) e accompagnato da San Giovanni Evangelista (la famiglia di Ilde professava la fede cattolica), raggiunse l’astro d’argento, il cui suolo veniva descritto nelle ottave come d’acciaio e recuperò, finalmente, l’ampolla contenente il ben dell’intelletto del grande guerriero.
Cosa ci azzeccava il satellite della Terra col senno di Orlando? Risposi pronto fissandola negli occhi: tutti i vizi e le illusioni terrene finivano, secondo la versione dell’Ariosto, sulla luna, trasformata in una sorta di grande fiera delle vanità umane.
Che fine aveva fatto, dopo la sua impresa, Astolfo? Si era invaghito della procace moglie di un torvo castellano, che scoperta la tresca e in preda alla più cieca gelosia, aveva scaraventato in mare il cavaliere di Carlo Magno. Alcina, di cui era stato amante, con le sue arti magiche, si era vendicata ulteriormente facendo inghiottire il paladino da una balena.
L’attesa della discesa sul suolo lunare degli astronauti statunitensi, il clou della spettacolare impresa spaziale, si allungava. Ilde ne approfittò per rivendicare il ruolo della Germania nella corsa alla conquista del cosmo.
“Tutto merito – chiarì – di Wernher von Braun. Senza di lui ed il suo staff l’impresa a cui stiamo assistendo chissà quando si sarebbe verificata… E’ sua la realizzazione del razzo Saturno”.
Mi raccontò che von Braun, brillante studente, appena laureato era stato aggregato per decisione di un alto ufficiale dell’esercito tedesco nell’artiglieria, ma poi Heinrich Himmler, lo aveva fatto passare nelle sue SS, fino a fargli raggiungere il grado di maggiore. Ovviamente, sosteneva Ilde, il giovane fisico non partecipava alle feroci azioni della spietata polizia nazista. Il barone – tale era lo studioso di famiglia aristocratica sia per parte di padre che di madre (quest’ultima imparentata con varie casate regnanti d’Europa) – aveva soltanto l’obbligo di dedicarsi, con il massimo impegno e determinazione, ai missili (i micidiali V2, così chiamati da Josep Goebbels, lanciati in particolare contro l’Inghilterra da Hitler) nella base di Peenemunde prima e di Nordhausen, poi.
“E’ stato pure arrestato – aggiunse – dalla Gestapo, sebbene sia stato poi liberato quasi subito, per i contrasti con il führer: crimini contro lo Stato, l’accusa che gli era stata mossa da Goebbels.”
Tutto solo perché – ma questo lo venni a sapere più tardi – lo scienziato già sognava e progettava i voli spaziali (studi al centro del suo dottorato di ricerca) e Hitler invece chiedeva, più prosaicamente e cinicamente, armi sempre più sofisticate per le sue mire di conquista sulla terra.
Von Braun (a destra) venne subito reintegrato, per intercessione del ministro Albert Speer. Troppo importante il suo ruolo per i nazisti, che si aspettavano un’arma micidiale in grado di rovesciare le sorti, ormai segnate, della guerra.
Arrivarono gli americani e lo ingaggiarono, commentai, interrompendola. “No, non andò così. Fu von Braun stesso – replicò Ilde – a scegliere di raggiungere gli yankee. Prima che potesse finire nelle mani dei russi o degli inglesi, temuti entrambi dagli scienziati tedeschi, per motivi diversi. Raggiunse le truppe Usa, la 44. divisione di fanteria, in Tirolo, con un viaggio in treno, piuttosto pericoloso (le SS avevano ricevuto l’ordine di uccidere tutti gli ingegneri della base), insieme ad un buon numero di colleghi che lavoravano con lui”.
Lo schermo continuava ad ammaliare e a tenere incollati, nel locale, i presenti, in buona parte resi frenetici dal risultato positivo dell’impresa, nonostante la lentezza delle operazioni sul modulo lunare. Tuttavia il tempo trascorreva senza che la lunga notte in bianco appesantisse le palpebre. Quando fu aperto il portellone del Lem erano trascorse più di sei ore dall’allunaggio.
Neil Armstrong (“Il suo cognome, tradotto in italiano, suona Fortebraccio, come uno dei condottieri di ventura più famosi della mia terra”, le avevo già detto) un po’ goffo nella tuta spaziale scese la scaletta e poggiò il piede sinistro (“Non è scaramantico”, osservai) sul suolo del Mare della Tranquillità. “Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità”, scandì l’astronauta (“La frase è bella, incisiva, significativa, ma se l’era preparata”, chiosai).
L’orologio indicava le 4,56 del 21 luglio. Eravamo entrati nel locale quasi otto ore prima.
Quindi toccò a Buzz Aldrin saggiare la consistenza della superficie lunare, cosa che gli riuscì con maggior eleganza e spigliatezza del collega. E fu anche, per me, più spontaneo nel commento: “Magnifica desolazione”, mormorò dopo aver allungato lo sguardo tutt’intorno.
A quel punto, decidemmo di uscire. Era notte ancora, ma sarebbe stato suggestivo aspettare l’alba sulla spiaggia. Ilde annuì alla mia proposta. Il mondo, in quelle ore, aveva iniziato una nuova era. Ne eravamo entrambi coscienti. Sebbene il messaggio lanciato sul suolo lunare risultasse un pochino utopico: “Qui uomini del pianeta terra fecero il primo passo sulla Luna. Luglio 1969 d.C. Siamo venuti in pace per tutta l’umanità”. Sul nostro pianeta si combatteva e si continuava a morire in diversi continenti. Allora come oggi, mezzo secolo dopo.
Io e Ilde avanzavamo lentamente, a piedi scalzi, sulla sabbia. Mentre Armstrong ed Aldrin, raccoglievano materiale lunare e poi risalivano sul Lem per ricongiungersi a Michael Collins (nato e cresciuto a Roma: piccolo il mondo, vero?) rimasto in orbita sul Columbia, per riprendere il viaggio di rientro verso il pianeta Terra, noi due, granelli infinitesimali nello spazio infinito, ci immergevamo, finalmente, nella nostra avventura personale, umana. E privata.
Chissà se anche Ilde, come me, avrà pensato ai versi Catullo: “e i pettegolezzi dei vecchi troppo severi, riteniamoli tutti soltanto moneta senza valore…”.
Elio Clero Bertoldi
Un racconto davvero piacevole. Complimenti
Divertente racconto molto originale sull’allunaggio e von Braun.