ROMA – L’attesa non è stata lunga, perché il melodramma è sempre stato al centro dell’arte italiana, del mondo, del cuore umano. E quando il 6 dicembre 2023, dopo una importante seduta dei Membri del Comitato per la Salvaguardia dei beni Culturali dell’Unesco nel Botswana, in Africa, ha sancito il Canto Lirico in Italia quale Patrimonio Immateriale dell’Umanità, l’italiano medio non si è scosso più di tanto. Per lui era cosa scontata, né aveva bisogno del pezzo di carta. Tanto, già dall’Ottocento i contadini della Val Padana, durante le ore di lavoro, cantavano le arie della Taviata, del Rigoletto o il Coro del Nabucco, magari non sapendo a quale opera appartenessero.
E soprattutto, cantavano le opere italiane: quasi mai magari intonavano la Carmen di Bizet così vicina a noi, quasi mai i melodrammi di Mozart (che pure scriveva opere in italiano, su libretti di Da Ponte) e proprio mai il Fidelio di Beethoven. Ciò perché inseguivano la melodia, che è cosa precipuamente italiana, tutta musicale e affatto concettuale. È stato detto di recente che, nella ricezione auditiva ed emotiva della musica operistica, l’italiano sente avvivarsi un elemento infantile, una capacità appartenente al primo suo universo, difficile da ricacciare indietro e che forse in lui rimarrà per sempre, in quanto fatta di luce.
Pure, l’universo italiano della lirica non risale e molti secoli fa: nacque con Monteverdi, col celebre “Orfeo” del 1607, ispirato come quasi sempre al mito greco: da Monteverdi nacquero Francesco Cavalli, Domenico Gabrielli, Alessandro Stradella (il Caravaggio della musica). Ma il Settecento fu il secolo in cui si affermarono i primi melodisti moderni: la Scuola napoletana produsse coi clavicembalisti Alessandro Scarlatti, Domenico Cimarosa, Niccolò Jommelli, anche Giovan Battista Pergolesi (nato a Jesi), che pur vissuto solo 26 anni, con la indimenticabile “Serva padrona” istituì l’opera buffa, a lungo metafora del teatro italiano, che eccelse col nostro Gioacchino Rossini.
Fu il Romanticismo a creare il melodramma che noi amiamo: nacquero e crearono Gaetano Donizetti (col suo “Elisir d’amore” che fa ridere, ma soprattutto dolcemente piangere), Vincenzo Bellini la cui “Norma” rammenterà per sempre Maria Callas, così come la “Medea” di Luigi Cherubini. E giunse il momento del grande Verdi: tutta la sua opera vive dentro di noi, né il mondo potrà più fare a meno dei suoi lieti calici che la bellezza infiora, né dello slancio sublime di “Amami, Alfredo”. Il mondo non farà più a meno neanche del feroce grido di dolore paterno di Rigoletto “Vendetta, tremenda vendetta!” o ancora– ne “Il Trovatore”- lo slancio e il tenorile do di petto in “Di quella pira l’orrendo foco”. Nell’opera che già si apre al tardo scandaglio psicologico di “Aida” (che Verdi strappò per un pelo a Wagner), ecco gli ultimi aneliti della pentìta Amneris: e nella penultima e straordinaria verdiana fatica di “Otello”, mai si potrà dimenticare la Canzone del salice, della morente Desdemona.
Il tardo Romanticismo che affluisce nel verismo, offre – oltre a nuovi artisti – altri capolavori, nel catturante Intermezzo della “Cavalleria rusticana”di Pietro Mascagni e nel drammatico scontro di Santuzza e compare Alfio. Intanto era nato l’astro di Giacomo Puccini, la gelida manina della sua “Bohème” e il terribile strappo del finale (che egli scrisse prima di iniziare l’opera): indi senza soffermarsi sull’immortale “Tosca” e la forza tragica dei suoi protagonisti (anche di lei Maria Callas fece un mito), si chiude il grande capitolo della lirica italiana, prima che il tempo non faccia giustizia dei compositori del secondo Novecento: tra essi vogliamo però andare col pensiero a Vieri Tosatti e alla sua grottesca e intramontabile “Fiera delle meraviglie” (1961) al Teatro Costanzi, e al giovane ancora nemmeno quarantenne direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana, Domenico Turi, autore di “”Non è un paese per veggy” (2017 teatro Palladium), mix di classica, di pop, di rap, opera-panettone o teatro musicale per tutti i gusti, poiché forse siamo ancora nel Novecento.
Paola Pariset
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