NAPOLI – Molto spesso si è tentati di creare, in ambito architettonico (ma lo facciamo a tutti i livelli: politici, familiari, nelle amicizie) una sorta di rigida classificazione in chi è razionalista, organico, fantasioso e liberty. Tale suddivisione deriva inevitabilmente da una osservazione schematica delle opere realizzate, delle linee usate, della funzionalità, dell’utilità di certe soluzioni ardite, insomma dei progetti, senza considerare le influenze ideali, le “imposizioni” dei clienti, le disponibilità economiche ma anche la normale influenza di una vita che incide sul segno grafico, sulla mera esecuzione tecnica finale. Come, poi, non considerare la materia, la nuova ed estrema tecnologia che, soprattutto per personaggi come Le Corbusier, hanno inciso non poco in termini progettuali. Si è sempre parlato dell’utilizzo che Le Corbusier ha fatto, fino all’estremo limite, del cemento armato, utilizzato in tutte le possibili potenzialità e varietà: a vista come setto portante, come divisorio, come elemento verticale, orizzontale, come elemento fondante l’intero progetto.
Un maestro, non c’è che dire, del materiale grigio, un genio del misurabile, dello spazio, della funzionalità. Ma, come si accennava prima, Le Corbusier è stato uno che soprattutto negli ultimi ha letteralmente spiazzato i critici, i seguaci, realizzando opere come la chiesa di Notre-Dame du Haut a Ronchamp (1950-53) ed il convento di La Tourette a Éveux. Opere piene di spiritualità e sentimenti assolutamente poco razionali. Anche in questo, Le Corbusier ha testimoniato come l’uomo architetto possa venir fuori con domande forti di significato sorvolando e quasi deridendo tutto il rigido funzionalismo espresso nella vita, nelle opere precedenti.
Le Corbusier, divenuto un personaggio di fama internazionale con il planetario successo di critica ottenuto con la costruzione della Villa Savoye a Poissy (1929), asserisce che la casa è la dimostrazione in scala reale dei vantaggi offerti dal cemento armato, che rende possibile l’applicazione di cinque principi – conosciuti come “i cinque punti della nuova architettura” – che sono cardine per attuare la rivoluzione architettonica guidata dalla macchina. “La casa è una macchina per abitare” aveva detto qualche tempo prima; frase d’effetto ma, a pensarci, da far drizzare i peli sulle braccia. Certe asserzioni non convincono affatto se non si traducono in una comodità del vivere, in un luogo come spazio di memoria. È infatti la macchina che rende possibili produzione standardizzata e prefabbricazione pesante, necessarie a costruire strutture in cemento armato a travi e pilastri (i “pilotis”, primo dei cinque punti). Che a loro volta consentono di svincolare i tramezzi interni dallo scheletro portante, posizionandoli a proprio piacimento (è il principio del “plan libre”) e di organizzare le facciate come semplice sequenza di pieni e vuoti, che asseconda le necessità degli spazi interni (“façade libre”); di sostituire le tradizionali finestre verticali con le aperture a nastro (“fenêtre en longueur”), che massimizzano gli effetti dell’illuminazione naturale. E, infine, è il cemento armato che consente di costruire i tetti piani adibiti a terrazza o giardino (“Toit terrasse”), che divengono parte integrante dello spazio domestico.
All’indomani dell’armistizio bellico, siamo negli anni ’40, il progettista si scopre deluso dalle terrificanti conseguenze dell’applicazione della macchina all’industria della guerra e sempre più attratto dalle potenzialità espressive che derivano, per esempio, dalla realizzazione del cemento. I cinque punti vengono rielaborati, in parte rinnegati, e Le Corbusier lavora sempre più spesso con geometrie e sagome curvilinee, con colori e materiali rintracciabili in alcuni dei capolavori costruiti a partire dal 1945: l’Unité d’Habitation a Marsiglia (1945), la Cappella di Notre Dame du Haut a Ronchamp (1950- 1955), il convento di Sainte-Marie de la Tourette a Eveux-sur-l’Arbresle (1953), fino alla straordinaria occasione che gli viene offerta con la costruzione di Chandigarh, nuova capitale dello stato indiano del Punjab che vedrà Le Corbusier impegnato fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1965.
La professionalità di Le Corbusier non manca di essere marcata da profonde contraddizioni, ma anche da singolari capacità di rinnovamento formale: dai moduli geometrici del razionalismo “purista” si può così passare all’impennata romantico-spiritualista della chiesa di Notre-Dame du Haut a Ronchamp e del convento di La Tourette a Éveux, con recuperi espressionistici nell’esaltazione del valore primario del cemento a vista. “Arrivato a Parigi, avvertii un grande vuoto dentro di me, e mi dissi: ‘Poveretto! Non sai ancora nulla e, accidenti, non sai neppure cosa non sai!’. Fu questa la mia angoscia più grande. Studiando l’architettura romana mi venne il sospetto che l’architettura non fosse un fatto di forme ritmicamente ordinate, bensì qualcos’altro … Cosa, allora? Non lo sapevo ancora…”. E ancora: “Fare un’architettura è come fare una creatura: essere riempito, riempirsi, esplodere, esultare, restando freddi in mezzo a circostanze complesse, diventare un cane contento”.
Anche per Le Corbusier l’architettura si rivelava il più grande strumento per ricominciare, per mettersi in discussione. Ed è stata questa la sua grandezza.
Innocenzo Calzone
Lascia un commento