//La felicità non si può misurare: si pratica

La felicità non si può misurare: si pratica

di | 2023-07-23T15:53:22+02:00 23-7-2023 6:00|Punto e Virgola|0 Commenti

Volete essere davvero felici? Allora andate a vivere in Finlandia. Oppure in Danimarca o in Islanda. Questi tre Paesi, infatti, occupano il podio nel World Happiness Report, l’annuale classifica che misura appunto il grado di felicità nel mondo. A seguire, nella graduatoria, Israele, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo e Nuova Zelanda. E l’Italia? Perde due posti e scende dalla trentunesima alla posizione numero 33, subito dopo la Spagna e appena prima del Kosovo. L’Afghanistan e il Libano dilaniati dalla guerra rimangono i due paesi più infelici del sondaggio, con valutazioni sulla vita media inferiori di oltre cinque punti (su una scala che va da 0 a 10) rispetto ai dieci paesi più felici.

Il report prende in considerazione vari parametri: sostegno sociale, reddito, salute, libertà, generosità, assenza di corruzione. I finlandesi, tanto per dire, sono al comando da sei anni di fila. Probabilmente con merito, anche se va detto con sincerità (lo ammettono gli stessi ricercatori) che soprattutto negli ultimi anni è diventato complicato misurare il grado di soddisfazione di un mondo dove sempre più si avvertono disuguaglianze e ingiustizie.

Ma quanto le persone sono soddisfatte della loro vita? Il WHR ha intervistato più di 100.000 individui in 137 paesi con una prima significativa evidenza: i punteggi negli anni Covid 2020-22 sono sostanzialmente simili (e alti) rispetto al biennio precedente 2017-19. Quindi, in generale, tutto il mondo continua a essere notevolmente resiliente nonostante quello che è accaduto e sta accadendo tuttora: pandemia, crisi energetica globale, inflazione elevat, guerra in Ucraina.

Un altro dato che spicca è l’aumento della benevolenza. L’indagine ha infatti appurato che le persone hanno aumentato le loro attività nel volontariato e contribuito maggiormente alla beneficenza. Una persona è altruista quando aiuta un’altra persona senza aspettarsi nulla in cambio. “Comportamenti altruistici come aiutare estranei, donare denaro, donare sangue e fare volontariato sono comuni, mentre altri (come donare un rene) lo sono meno – si legge nel report -. Normalmente, le persone che ricevono aiuto altruistico sperimenteranno un miglioramento del benessere. Ma in aggiunta, ci sono molte prove (sperimentali e altre) che il comportamento di aiuto aumenta il benessere del singolo aiutante. Ciò è particolarmente vero quando il comportamento di aiuto è volontario e principalmente motivato dalla preoccupazione per la persona che viene aiutata. Inoltre, quando il benessere delle persone aumenta attraverso l’esperienza dell’aiuto altruistico, diventa più probabile che aiutino gli altri, creando una spirale virtuosa”. Insomma, per semplificare e allontanarsi dei termini tecnici, fare del bene fa bene: a chi riceve e a chi lo fa.

“lQuando valutiamo una società, una situazione o una politica – scrivono ancora i ricercatori del WHR –   non dovremmo guardare solo alla felicità media che porta (anche per le generazioni future). Dovremmo guardare in particolare alla portata dell’infelicità (cioè, alla scarsa soddisfazione di vita) che ne deriva. Per prevenire la miseria, i governi e le organizzazioni internazionali dovrebbero stabilire diritti come quelli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite. Dovrebbero anche ampliare gli obiettivi di sviluppo sostenibile  per considerare congiuntamente le dimensioni del benessere e della politica ambientale al fine di garantire la felicità delle generazioni future. Questi diritti e obiettivi sono strumenti essenziali per aumentare la felicità umana e ridurre la miseria ora e nel futuro”.

E ancora dal rapporto si evince come il miliardo e passa di persone che vivono in Occidente siano sempre più lontane dal resto del mondo.  Quando si allargano le disparità non solo economiche e quindi non solo legate alle condizioni materiali ma anche culturali ed esistenziali è complicato pensare a una misurazione condivisa della felicità. Servono quindi nuovi indicatori, capaci di leggere meglio il contesto. E proprio questa considerazione induce chi scrive a ritenere che vivere in Italia sia molto meglio che farlo in Finlandia o in Danimarca o in Islanda o in qualsiasi altro paese che precede nella classifica. E, tutto sommato, anche afghani  e libanesi non avrebbero alcuna voglia di allontanarsi dalla terra dove sono nati se solo fossero risolte le problematiche connesse alla guerra, alla repressione, alla povertà, alla negazione della libertà.

Perché la felicità è un concetto aleatorio e assai legato alle condizioni contingenti e non esistono parametri universalmente validi per misurarla e quantificarla in maniera uniforme. E tale aspetto non potrà mai essere sottolineato da qualunque tipo di indagine.

Buona domenica.

 

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