La paura di non farcela. Un virus ancor più terribile e pericoloso di quel draghetto coronato che da mesi sta sconvolgendo le nostre esistenze, con il suo carico di lutti, miserie e povertà sempre più diffuse. Un virus insinuante e travolgente perché colpisce la mente, offusca la razionalità, pervade l’animo. E in questi casi non ci sono medicine e neppure vaccini, purtroppo. Bisognerebbe saperne cogliere le varie caratteristiche e le sue manifestazioni esteriori per tempo, ma talvolta non ce ne accorgiamo o sottovalutiamo esternazioni che appaiono dettate dallo sconforto del momento e che invece sono sintomo di una malattia molto più grave e subdola: il mal di vivere.
La paura di non farcela, il timore di non essere all’altezza, la crescente consapevolezza di non avere gli strumenti adeguati per proteggere e aiutare se stessi, i familiari, gli amici, i dipendenti… Persone che in qualche modo sono legate alle nostre decisioni e che aspettano una parola, un gesto, un consiglio per aiutare e proteggere e sostenere, a loro volta, le rispettive famiglie. Molti ce la fanno, resistono, progettano la riapertura di aziende, negozi, laboratori: un primo passo verso il ritorno ad uno straccio di normalità e una risposta concreta alle aspettative di chi ruota intorno a loro. Altri, purtroppo, cedono e cadono in quella spaventosa spirale di abbattimento e prostrazione che talvolta porta addirittura all’annientamento di se stessi fino al gesto estremo e drammatico di togliersi la vita.
Con burocratica definizione, qualcuno potrebbe parlare di “effetti collaterali”. Troppo semplice e banale cavarsela così, perché il suicidio è un dramma ancor più devastante per chi lo compie e per chi lo subisce, tragicamente privato non solo dell’affetto ma soprattutto del sostegno (morale e materiale) che quella persona cara garantiva.
E’ accaduto nell’ultima settimana con un imprenditore di Napoli che si è tolto la vita ossessionato dall’idea di non poter assicurare un futuro dignitoso alla sua impresa e ai lavoratori che vi operavano; è accaduto a Viterbo all’alba di qualche giorno fa quando un vigilante, padre di due figli, si è sparato per strada, sotto casa, mentre si accingeva a prendere servizio per il suo turno di lavoro. Storie certamente diverse, ma unite da un fattore comune: la sensazione che, col tempo, diventa certezza di non potercela fare, di non poter e saper resistere all’onda sconfinata di uno tsunami emotivo che devasta il cuore e la mente prima che il corpo.
C’è molto poco da aggiungere se non sollecitare l’impegno di tutti noi e delle Istituzioni all’ascolto e alla vicinanza. E qui il distanziamento sociale non c’entra.
Buona domenica.
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