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“La congiura degli ignoranti”, la denuncia di Davide Miccione

di | 2024-09-19T13:15:08+02:00 22-9-2024 1:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

PALERMO – “Pensare l’ignoranza ci disturba. È il nostro grande non detto”: non sta zitto invece il siciliano, docente e filosofo, Davide Miccione che, nel libro La congiura degli ignoranti (Valore italiano editore, Roma 2024), denuncia la dilagante diffusione dell’ignoranza oggi in Italia.  Lo fa con una scrittura intrigante, ricca di intelligente ironia, evidente anche nella titolazione di alcuni capitoli (Come finire il liceo e restare ignorante, Intervallo pandemico semiserio: balli e canti, La maturità si avvicina, Fai outing e dillo a tuo padre, Verrà il format e avrà i tuoi occhi, Offresi laureato terrapiattista) in un testo che offre una disamina convincente dell’attuale pervasività dell’ignoranza.

Ma chi sono i “congiurati”? In misura diversa, un po’ tutti: “Dal cinquantenne che fino a qualche tempo fa leggeva ma ormai, sconvolto dalle potenzialità di internet, si fa vedere dal figlio in piena età formativa a digitare idiozie tutto il giorno sui social; all’assessore alla cultura… che porta in giro senza alcuna vergogna il suo italiano privo di congiuntivi per conferenze e presentazioni”.

Secondo l’autore, sono tre comunque gli ambiti dove la distruzione della cultura si manifesta con maggiore evidenza: la scuola, il web e la politica. Riguardo alla scuola, lo studioso afferma qualcosa che sembrerebbe un paradosso: “L’ignoranza è il prodotto che il sistema scolastico si attende e che scientemente persegue”, ma correda la sua tesi con esempi convincenti. Eccone alcuni.

L’alternanza scuola lavoro, il cui messaggio sotteso è: “Non è per capire, aumentare la consapevolezza critica e la cultura che voi siete qui. È per cercarvi un lavoro. Lo studio è una parentesi irrilevante. (…) E attenti: non innamoratevi delle cose che studiate, chiedete invece se sono spendibili”; il sistema di valutazione dell’Invalsi “con i suoi imperversanti test, utili a monitoraggi per future imposizioni tecnocratiche e a insegnare che la massima gloria di un liceale è andare bene nei test: addestrarsi, non formarsi”; il sistema dei crediti, la continua e pervasiva trasformazione di ogni attività in cifre e numeri: “I crediti servono a comunicare l’esteriorizzazione della cultura (…) e soprattutto servono a ricordare che niente va fatto se non può essere monitorato e valutato”. “Nel regno dei crediti ogni forma di ricerca personale, ogni lettura fatta per libertà e curiosità personali, ogni passione personale e solitaria, si fa inutile e colpevole, inadatta a essere convertita”.

Davide Miccione

Riguardo poi ai test di accesso all’università, l’autore ribadisce che essi “rivelano solo chi è preparato da test e a volte possono eliminare le menti migliori, quelle più adatte a ponderare scelte… che entrano in sofferenza di fronte a questa prova da quiz televisivo con tempi sincopati. Il test non è una seleziona neutra”.

Sebbene oggi la percentuale di iscritti ai licei sfiori in Italia il 57%, si assiste comunque al declino dell’umanesimo e della cultura. Perché? Secondo Miccione, perché i nuovi indirizzi liceali non offrono un potenziamento formativo, ma solo un alleggerimento dei contenuti significativi e formanti: “Il messaggio implicito dei nuovi indirizzi liceali è antintellettualistico: vi togliamo le materie inutili, quelle che non servono a nulla, che non vi portano lavoro, che vi fanno perdere tempo”. “Unire dimensioni applicative e professionali al troncone del liceo serve a ricordare che non è possibile nessuna pratica disinteressata della cultura”.

E poi – e l’autore fa bene a sottolinearlo – uno dei problemi della scuola di oggi, licei compresi, è che i ragazzi non leggono e conoscono poco la lingua italiana: ormai “l’obiettivo di un numero ormai congruo di liceali è quello di terminare il liceo senza ‘passare al testo’, se possibile con voti discreti”. “Solo un corpo docente tutto orientato alla riconquista della lettura e del testo scritto… potrebbe creare una pressione tale sugli studenti da potere cambiare qualcosa”.

E il merito? “Merito è una parola-cilindro, come quelli truccati dei vecchi maghi, adatti a far uscir fuori conigli e stupire lo spettatore distratto”. L’attuale, ambigua riproposizione del termine mescola mezze verità e tante bugie: se la scuola pubblica non attua “una forte politica di incentivazione per le classi povere (…) la questione del merito si risolve in una pantomima e in un grosso bluff”. E la scuola continua comunque a essere classista, ma non selettiva e meritocratica.

Non va meglio all’Università. Miccione (già assistente universitario, sa di cosa parla) mostra come lo studioso venga costretto a divenire un “ragioniere dello spirito” perché nelle Università la cultura è soggetta a una sorta di catalogo di raccolta/punti: infatti l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) impone al docente “una natura amministrativa, burocratica e impiegatizia. Gli spiega che quando studia e scrive deve sempre tenere a mente il valore bibliometrico-numerico-accademico in cui la sua opera deve convertirsi… Chi voglia insegnare compulsi le tabelle e non perda tempo”.

Da tutto ciò si deduce allora che “l’ignoranza è il target e non l’incidente della scuola contemporanea” in quanto in essa, come sottolinea lo studioso Lucio Russo, si sta compiendo “un processo di deconcettualizzazione, eliminando dall’insegnamento gli strumenti intellettuali tradizionali, basati sull’uso di concetti teorici”.

Non può che essere così, in quanto spesso i docenti, non sempre preparati e “trasformati in amministrativi e in somministratori di unità didattiche e di test, oggi sono chiamati a fare di tutto anziché occuparsi dei contenuti delle proprie discipline”. E dimenticano “quello che dovrebbe costituire la loro autentica missione: insegnare a pensare”.

Anche il web fa la sua parte nel processo di impoverimento culturale odierno: viene riportato nel testo il rapporto Digital 2019, da cui si apprende che gli italiani connessi a Internet sono quasi 55 milioni e che 9 su 10, nella fascia 16/64 anni, vi passano minimo 6 ore al giorno: se ne deduce che un diciassettenne, per fare spazio alla lettura e alla riflessione, dovrebbe non studiare, non fare sport, lingue e attività varie.

Inoltre, come prova uno studio canadese che mostra chiaramente gli effetti nefasti del cellulare sull’infanzia: “L’oggetto tecnologico rende dipendenti… È più difficile che nasca una dipendenza dei libri, perché il linguaggio è faticoso, mentre la tecnologia è immagine ad effetto, iconicità, informazione rapida, risolutiva”.

Riservando ai potenziali lettori l’illuminante performance inscenata dal nostro (a pag.144) con amici invitati a cena, Miccione conclude amaramente che “non è però il dialogo con l’altro la prima vittima, quanto il dialogo con se stesso… Il web sta formando/selezionando le sue forme antropologiche adeguate, e profondità, riflessività, contemplazione, non sembrerebbero essere previste”.

Purtroppo “ a nessuno tra chi è al potere viene in mente di potere concepire la scuola come ciò che dà equilibrio alla società fornendo ad essa proprio ciò che non ha. La scuola dovrebbe essere il correttivo della società, il suo contrappeso. Se gli studenti sono ‘digitalmente colonizzati’ allora la scuola dovrebbe essere il luogo per fare altro… per allentare la dipendenza e permettere altre esperienze di rapporto con il mondo. Se la società è ossessionata dalla performance e dalla immediata utilizzabilità, allora la scuola dovrebbe rappresentare ciò che allenta questo guinzaglio e lascia spazio per ciò che è disinteressato”.

Le pagine finali del testo sono dedicate al rapporto tra cultura e politica: si sottolinea come il trionfo dei tecnici nella politica sia il sottoprodotto della mancanza di una visione d’insieme, dell’assenza di consapevolezza che ogni scelta, specie se politica e quindi di interesse comune, implica la scelta di criteri, valori di ordine etico e antropologico: “La cultura… porterebbe dei problemi di accettazione nei confronti dell’azione politica come mero fare tecnico”. Invece “il potere, per evitare il virus della politica come luogo dove si raggiunge una decisione di cui si debba poi avere una responsabilità, si traveste da anni da tecnica, costruisce algoritmi per classifiche che gli permettano tecnicamente di tagliare finanziamenti come mero fatto tecnico e così via”. “Apparirebbe evidente come un treno sia un treno solo per un ingegnere ferroviario, ma per un politico è un mezzo per realizzare dei fini… Tutte scelte che pur avendo un aspetto tecnico implicano la scelta di una gerarchia dei fini e di una saggezza nell’uso dei mezzi”.

Per cui, paradossalmente “non avere idee, non avere cultura e visione del mondo, aiuta nell’esercizio attuale della politica. Un uomo di cultura verrebbe intralciato dalle proprie idee… e dalla propria attitudine a ragionare invece che a eseguire”.

Siamo condannati dunque a un’ignoranza stupida e totalizzante come preconizzato anni fa dal film Idiocracy? C’è da temerlo davvero, perché “per cambiare rotta, servirebbero degli intellettuali che si intestassero questa battaglia, servirebbero dei genitori che pretendessero cultura e non assistenza sociale, servirebbe un’opinione pubblica preoccupata dei propri futuri cittadini ed elettori”.

Allora, Miccione dedica le sue dolorose riflessioni ai ‘resistenti’: “Nella speranza che si sentano meno soli e scoprano magari di non essere in numero così ridotto da non provare perlomeno a collegarsi tra loro se non per invertire il processo almeno per rallentarlo; e se non per rallentarlo almeno per non viverlo in solitudine”.

Chissà se, dalle caverne di una difficile presa di coscienza, non emerga magari il tentativo di costruire una nuova, inedita, necessaria ‘santa alleanza’ tra le persone pensanti ancora vive in Italia: sostenitori del pensiero, unitevi!

Maria D’Asaro

 

Già docente e psicopedagogista, dal 2020 giornalista pubblicista. Cura il blog: Mari da solcare
https://maridasolcare.blogspot.com. Ha scritto il libro ‘Una sedia nell’aldilà’ (Diogene Multimedia, Bologna, 2023)

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