TODI (Perugia) – Il Tevere, dopo Todi in direzione di Orvieto, si insinua lungo le strette gole del Forello e poi sbocca nel Lago (artificiale) di Corbara. Nonostante la zona vanti diversi richiami turistici (paesaggistici, soprattutto, con l’invaso e, in alto, la voragine del Vergozzino, l’inghiottitoio del Vergozzo e la grotta del Callarano, tutti impegnativi e da affrontare con la guida di speleologi esperti; storici, a cominciare dal castello medievale di Civitella dei Pazzi, la nota famiglia di banchieri fiorentini, oggi Civitella del Lago; religiosi, con l’Eremo della Pasquarella, fondato da San Romualdo nell’XI secolo e frequentatissimo sino a pochi decenni fa; enogastronomici con ristoranti, persino di lusso e trattorie apparentemente modeste, ma che servono piatti genuini e gustosissimi) non gode di buona stampa e non attrae visitatori in numero significativo. Purtroppo per questi ultimi. Tra l’altro, da qualche anno, anche l’archeologia, in vocabolo Scoppieto di Baschi, regala opportunità ghiotte, interessanti per una “puntata” in queste lande poco conosciute e poco frequentate eppure suggestive.
Fin dall’antichità il fiume risultava navigabile: dall’Alta Val Tiberina sino a Roma. Già ai tempi della discesa di Annibale nella penisola, il legname per costruire le flotte romane arrivava dai boschi appenninici come anche l’olio, il vino ed i cereali scendevano la corrente in direzione dell’Urbe. Che si fosse insediata, lungo le impervie gole, persino una attività artigianale fittile di alto livello, lo hanno scoperto appunto gli archeologi dell’università di Perugia – sotto la guida della professoressa Margherita Bergamini e grazie al contributo della Regione Umbria, della Provincia di Terni, del Comune di Baschi e della Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto – con tutta una serie di scavi iniziati nell’estate del 1995, nell’area adiacente al percorso del Tevere, che con la sua navigabilità, risultava “appetibile” pure per una azienda, agricola o industriale che fosse. I fiumi di una certa portata rappresentavano, nell’antichità, vere e proprie autostrade.
In pratica sono venuti alla luce reperti che coprono uno spazio di oltre otto secoli di natura cultuale nelle epoche più remote, poi agricola e di allevamento (recuperati singolari contenitori per l’ingrasso dei ghiri, i “gliraria”, di cui le famiglie ricche, sia etrusche, sia romane, andavano particolarmente ghiotte), quindi di alto artigianato ceramico. All’improvviso il sito produttivo venne abbandonato (per una calamità o forse per un violentissimo incendio di cui si sono trovati i segni), tornando solo dopo molto tempo, all’utilizzo agricolo con vigneti ed oliveti. L’aspetto di maggiore curiosità riguarda il periodo che va dalla fine del primo secolo aC fino all’epoca di Traiano. In questa fase temporale i fratelli Lucio Plotidio Zosimo e Lucio Zosimo Porsilio installarono, lungo le rive del fiume sacro per definizione, una manifattura molto importante per la produzione di vasellame in ceramica caratterizzata dal colore rosso-corallino (tinta ottenuta impastando argilla con polvere di ferro).
I due fratelli della gens Plotidia, saliti quassù dalla natia Roma, “firmavano”, alla base, i prodotti usciti dalla loro fabbrica con un bollo a forma di piedino (“in planta pedis”), con la stessa idea di marketing, insomma, delle “griffe” del giorno d’oggi. Come fanno, ai nostri giorni, con i loro marchi Chanel e Dior, Vuitton e Gucci, Prada e Yves Saint Laurent o Cucinelli. Gli archeologi hanno scoperto un enorme locale con ben 28 postazioni di lavoro. Addirittura individuando i punti con il tornio, con la vaschetta con l’acqua per inumidire l’argilla, con il braciere (alle spalle dell’operatore) quale riscaldamento. Se il lavoratore sta comodo, schiavo o uomo libero che sia, produce più e meglio. Gli imprenditori più illuminati lo intuivano pure allora. Sono saltati fuori dal terreno finanche i punzoni e le matrici per le decorazioni, aspetto questo, che ha fatto ritenere agli studiosi, come il luogo sia stato abbandonato in fretta, perché, nella normalità, questi oggetti venivano distrutti per evitare che qualcun altro se ne impossessasse e sfruttasse, a proprio vantaggio, il “logo” divenuto di enorme successo commerciale.
Che dalla manifattura di Scoppieto uscissero prodotti di grido e di lusso, apprezzati e ricercati, lo testimoniano non uno, ma tutta una serie di musei dell’area del Mare Nostrum dall’Algeria (Costantina, Chercell, Tiddis) alla Tunisia (Cartagine), dall’Egitto (Alessandria) fino a Creta ed a Cipro in cui vengono esposti nelle teche, novanta “pezzi”, complessivamente, riconoscibili perché siglati coi bolli dei Plotidia: piatti, ciotole, vasi, coppe, bicchieri, stoviglie, lucerne. Da Scoppieto, fuori mano e sconosciuto allora come oggi, la produzione dei fittili umbri ne ha fatta di strada e ne ha solcati di mari invadendo, quasi inondando, tutto il mondo conosciuto di quei tempi lontani. Nell’area degli scavi – che per un periodo si era trasformata in un vero e proprio villaggio – sono saltate fuori dagli strati di terra persino statuette votive (una di Dionisio); monete coniate dagli imperatori Augusto, Claudio, Nerone, Vespasiano, Tito, Domiziano, Antonino Pio oltre ad una moneta, ancora più antica, della zecca di Todi (sola città umbra, con Gubbio, che abbia emesso monete, prima e dopo l’arrivo – meglio: l’invasione – dei romani). I cimeli recuperati, raccolti e repertati, fanno bella mostra di sé nell’Antiquarium di Baschi.
Dite la verità: non vi è venuta voglia di fare una puntata tra Todi ed Orvieto? Alla ricerca della griffe perduta…
Elio Clero Bertoldi
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