TODI (Perugia) – “Fugo la croce che me devora” è il titolo (tratto da una laude di Jacopone da Todi) di un imponente lavoro sul poeta tuderte – una raccolta di ben sedici saggi che affrontano da più lati la possente personalità del frate francescano, una delle guide della corrente degli “spirituali” – dato alle stampe e curato dal professor Enrico Menestò, Accademico dei Lincei e dal professor Massimiliano Bassetti. La presentazione del libro è stata organizzata dal Comune di Todi (presenti il sindaco Antonino Ruggiano e l’assessore Claudio Ranchicchio) nello scenario davvero stupendo della terrazza delle Lucrezie, appoggiata ad un muro romano e che si apre, a strapiombo, sulla media valle del Tevere (si vedono, nei giorni tersi e sereni, persino Perugia, il Monte Tezio ed il Monte Acuto) sino alle gole del Forello.
Al tavolo dei relatori, due accademici di altissimo rilievo quali Franco Cardini e Paolo Pellegrini. Quest’ultimo ha definito Jacopone “antesignano” di Dante Alighieri (1265-1321), facendo trasparire la possibilità che i due possano essersi addirittura conosciuti. Di certo il frate dimostra, nelle sue opere, uno spessore intellettuale enorme con citazioni che vanno dalla Bibbia, al nuovo Testamento, a San Paolo, alla letteratura latina, ai grandi pensatori, teologi e filosofi, dell’alto Medioevo. Una conoscenza enciclopedica paragonabile a quella di cui fa sfoggio lo stesso Dante nelle sue opere. “Intellettuale sovversivo”, etichetta così uno studioso, il frate degli spirituali. Un altro lo qualifica come “Un uomo perdente (dal punto di vista politico, nda), un’opera vincente”. Menestò – tuderte anche lui – lancia un sasso suggestivo: approfondire ulteriormente gli studi per verificare se non si possa trovare tra i tantissimi manoscritti anonimi e non studiati, qualcosa di poesia laica di Jacopone “giovane” e non ancora convertito e catturato dall’amore divino (“Iesu, speranza mia, abissame en amore”). Il ragionamento é lineare: del poeta conosciamo, se non tutto, molto a partire dal 1278, anno del suo ingresso tra i francescani (dopo dieci anni di vita da “bizzocone”, cioè da penitente, ritenuto “pazzo” dai suoi concittadini) fino alla morte, ma nulla di nulla del periodo precedente.
Possibile che un rimatore di questa portata nella prima metà della sua vita non abbia scritto niente di poesia “cortese” e che la sua vena poetica, la sua musa, sia esplosa insieme al miracolo della conversione? Due prodigi in contemporanea? Eppure emergono dalle sue poesie echi forti dei rimatori provenzali, siciliani, toscani… Altro aspetto da indagare riguarda la personalità, forte, aristocratica, orgogliosa del frate. Come mai l’esponente degli Spirituali, ferocemente critico contro Papa Bonifacio VIII, tanto da firmare il manifesto di Lunghezza, nel quale veniva dichiarata illegittima l’elezione di Benedetto Caetani al soglio di Pietro, in quanto Celestino V, Pietro da Morrone al secolo, non era legittimato a pronunciare il “gran rifiuto” (le dimissioni), poi arriva a piegarsi ed a chiedere, mentre si trovava ai ceppi, al pontefice – descritto nella stessa lauda, “con la lengua forcuta” – l’ “Absolveto”, cioè il “sia assolto”? La laude 55 (“O papa Bonifazio”) in realtà va letta e parafrasata anche dai profani (come chi scrive) con attenzione. E non pare un elemosinare la grazia, e neppure un testo untuoso, lecchino per ottenere un favore dal potente di turno. Tutt’altro.
“Extra ecclesiam, nulla salus” (al di fuori della Chiesa, non c’è salvezza), si diceva. E il frate, scomunicato e arrestato dopo la caduta di Palestrina, nella quale i “ribelli” si erano arroccati, non sollecita la libertà dal carcere duro, ma esclusivamente che gli venga tolta la scomunica, impedimento alla sua anima per salire, una volta sopraggiunta la morte corporale, a Dio. Scrive: “Per gratia te peto/che me dichi “Absolveto”/e l’altre pene me lassi/fin ch’e’ de mondo passi”. In alcuni passaggi addirittura sfida il pontefice ad un confronto: “Combatti in un altra maniera”, gli suggerisce: “Volentieri ti parlerò/e credo che ti gioverà”. E conclude, sempre tradotto dal volgare in italiano: “Stammi bene. Dio ti sollevi da ogni male (terreno) e lo dia a me, per grazia sua, perché io lo sopporterò con viso lieto”.
Altro terreno da investigare sarebbe il rapporto tra Jacopone (nato tra il 1225 ed il 1230 e spirato nel 1306), Benedetto Caetani, poi Bonifacio VIII (1230-1303) e il cardinale Matteo d’Acquasparta (1240-1302). Tutti, in pratica, di una generazione, tutti presenti a Todi nella giovinezza (il primo e l’ultimo per nascita, il secondo per esservi stato chiamato dallo zio Pietro Caetani, vescovo della città, che lo elesse anche priore della chiesa di Santa Illuminata e canonico della chiesa di Santa Maria Maggiore, con tanto di prebende), tutti e tre probabilmente amici o comunque conoscenti. Quale avvenimento (e quando) li divise in maniera così netta, così drammatica, così feroce? Solo la dichiarazione di… guerra del frate (“La curia romana, ch’a fatto esto fallore/curriamoce a furore, tutta sia dissipata”) lanciata dal convento di Pantanelli di Baschi negli ultimi anni del secolo o qualche fatto antecedente? Tra l’altro Matteo d’Acquasparta apparteneva ai francescani (di cui fu persino ministro generale) ed era pure lui un valido intellettuale, esperto in teologia, sebbene alla presa di Palestrina rivestisse il ruolo di comandante delle truppe papaline. Dante ne parla e lo biasima nel canto XII del Paradiso, così come aveva citato nell’Inferno (canto XIX) Bonifacio VIII (di cui Matteo risulta fosse un amico fidato). Fuori dai denti: anche all’Alighieri, come a Jacopone, il papa ed il cardinale stanno antipatici. Altro “legame” tra i due poeti. Cardini, ancora una volta, ha ragione: “Un vero libro di storia – ha sentenziato – apre scenari nuovi”.
Elio Clero Bertoldi
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