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“#iorestoacasa”, “#iorestoumano”

di | 2020-03-20T18:52:12+01:00 22-3-2020 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

PERUGIA – Mi sono organizzato. Stare a casa mi garba. D’altro canto, ogni volta, quando ero fuori, per lavoro o per diletto che fosse, non vedevo l’ora di rientrare tra le pareti domestiche, tra gli affetti più solidi, tra gli oggetti, i profumi ed i rumori abituali. Nel caos, creativo per me (non per mia moglie), delle mie cose, dei miei giornali e dei miei libri, rintraccio subito quello che cerco, cosa mi serve. Mi muovo a mio agio. Il restare in casa l’assolvo col fine, convinto, di tutelare me, la mia famiglia, la mia comunità, gli altri nel senso più lato, dal Coronavirus. E’ l’obbligo di farlo – non per empito naturale, spontaneo – che pesa un po’ alla parte anarchica della mia anima. Ma, pazienza. Obbedisco, ripeto, per il rispetto della comunità, dell’umanità. Vale, per me, la regola aurea di fare all’altro quello che vorrei fosse fatto a me.

Accanto allo slogan “#iorestoacasa”, aggiungerei, tuttavia, “#iorestoumano”. Non mi piacciono per niente, lo dico fuori dai denti, i discorsi – sempre più frequenti di certi tizi, in televisione, alla radio, sui social poi, ancora di più -, intrisi di un crescente senso di fastidio, di distacco, quasi di inimicizia ed in alcuni casi persino di odio, nei confronti degli anziani. E non perché io rientri, pleno iure, in questa categoria. Mi ripugnerebbero, queste elucubrazioni, anche fossi stato ben più giovane. Fin da piccolo ho coltivato – in virtù degli insegnamenti della famiglia, della scuola, delle letture personali – un rispetto sacro dei capelli bianchi. Nella lista dei miei eroi preferiti, ai primissimi posti figura Enea che porta via sulle spalle l’anziano genitore, Anchise, dalle fiamme distruttrici e dalle rovine di Troia. E ritengo una mia grande fortuna l’aver assistito, mano nella mano, prima mio padre, purtroppo in coma, anni dopo mia madre, lucidissima fino all’ultimo respiro, nell’ora angosciante e straziante del trapasso.

“Con questo morbo muoiono solo i vecchi con altre patologie”, sento ripetere (e non è del tutto vero). Come se cadesse dall’albero scrollato frutta marcia. Addirittura un capo di governo, dell’algida Albione per la precisione, taglia corto: “Vedrete morire i vostri cari più maturi…”. Che vuoi che sia? Nella società di oggi – straripante del futile, del superfluo, del vano – l’egoismo non solo si pavoneggia, ma spadroneggia. Lo sappiamo bene noi vecchi, e senza alcuno che da pedante ce lo rammenti, come ogni campana che suona, potrebbe farlo, ed ogni volta sempre con maggiori possibilità, per noi. Che bisogno hanno questi soggetti a far affrettare il passo al destino? Oggi, per molti, noi anziani risultiamo di “peso”, ma fino a ieri, eravamo quelli che, non senza fatica e sacrificio, trainavamo il carro del progresso comune. Col nostro lavoro, col nostro impegno, con le nostre idee, con le ritenute – più prosaicamente – dei nostri stipendi permettevamo al treno, foss’anche una sbuffante ed ansante tradotta, del nostro paese di tirare avanti, di raggiungere stazione dopo stazione una vita sempre più agiata ed al passo coi tempi.

Lo scrittore Albert Camus, autore de “La peste”

Chi predica e propone, con modi a dir poco sfrontati, di sbarazzarsi – prima che provveda alla bisogna lo stato naturale delle cose – degli anziani, deve rendersi conto che il suo ragionamento – definiamolo, con un pizzico di ironia, così – nasconde anche per chi lo pronuncia una insidia pericolosa: potrebbero spuntare, d’un tratto e all’improvviso, ceti più giovani che riterranno anziani i cinquantenni e poi i quarantenni ed ancora perfino i trentenni, e dunque meno meritevoli di sopravvivere. Un giorno o l’altro i più belli potrebbero ritenere inutili e dannosi alla specie i più brutti. O peggio ancora i più ottusi, purtroppo in aumento esponenziale, potrebbero valutare giovevole liberarsi – spinti dalla propria stupidità – delle menti più eccelse. Si trova sempre qualcuno che abita più a nord. E anche chi pensa di trovarsi al sicuro al circolo polare artico, può imbattersi, alla fine, in un orso bianco, affamato o irritato, che non gli chiederà chi sei, da dove vieni, chi “fur li maggior tui”. La belva lo divorerà e basta.

Restiamo dunque, con buona disposizione, a casa fin quando il morbo non sarà debellato, ma tentiamo di rimanere, in aggiunta, umani. Almeno un poco. Le pestilenze, come la morte, non guardano con i nostri occhi. Pericle, al colmo della gloria, fu stroncato da un terribile contagio che piombò terribile e devastante, sugli anni d’oro di Atene. Imperatori (Marco Aurelio), re (Luigi XV), papi (Clemente VI), scienziati (Franklin), filosofi (Cartesio), intellettuali (Byron), pittori (Tiziano), musicisti (Tchaikovsky), inventori (Wrigth) hanno diviso, nelle ricorrenti epidemie dei secoli passati, la stessa sorte con gli ultimi: gli schiavi ed i servi della gleba. La falce della morte non ha avuto, non avrà e mai potrà avere gesti o moti di riguardo o di pietà. Il morbo, come la pioggia biblica, cade indifferentemente sul giusto e sull’ingiusto. L’invito, pertanto, è di sfruttare questo periodo di “prigionia” forzata – senza lavoro, senza diversivi, senza i passatempi usuali – per riflettere, per pensare alla nostra fragile condizione umana.

Tutti, giovani e meno giovani “Si sta – canta profetico il poeta Giuseppe Ungaretti – come d’autunno sugli alberi le foglie”. Nessuno escluso. Come un altro poeta, Pablo Neruda, avverto in queste ore, in questi giorni tristi e dolorosi, scanditi dal conteggio ragionieristico dei morti e dei malati, “un cuore pesante”. E ora mi taccio – perché “encresce l’ascoltare lo longo trattato”, ammoniva Jacopone – con le parole finali di un “poema” proprio del grande cileno. “Toccate qui, sul panciotto,/e vedrete come mi palpita/un sacco di pietre scure”. Sebbene l’augurio che nutro sia scevro di pessimismo: che cioè l’umanità intera ritrovi il suo cammino. Migliore di prima, per tutti. E che magari, qualcuno, riemerga da questa stagione di patemi, di sofferenze, di tormenti, non solo risanato nel corpo e con un minimo di rispetto e di pietà nell’animo, ma pure con un pizzico di sale in più nella zucca.

Elio Clero Bertoldi

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