Un giorno di ottobre del 1944. Germania. Campo di lavoro 1406, stamlage 9 A, Kassel.
Angelo Niciarelli, 19 anni, 43 chili di peso, prigioniero di guerra, era uno degli internati, da più di un anno, nel lager nazista. Non lo chiamavano più per nome, ma per numero. Il suo corrispondeva al 78878. Durante la detenzione lo avevano costretto a lavorare prima in una fabbrica di aerei di proprietà di Gherard Fieseler, poi dopo che l’azienda era stata bombardata e distrutta dai raid degli aerei anglo-americani, in una manifattura di stoffe. Di giorno sgobbava come uno schiavo, la notte rientrava nel campo. Vita durissima, al limite della sopravvivenza. Molti prigionieri, anche per un nonnulla, venivano uccisi. Gli altri tiravano avanti, abbrutiti dalla paura, tra fame, stenti, malattie, pidocchi.
Quel giorno d’autunno, davanti ad Angelo si presentò un borghese, Arno Kroll, proprietario di una macelleria e di un mattatoio. “Prendi tutto”, gli disse. “Io ho già tutto”, rispose l’italiano, senza sapere che quella era una frase famosa pronunciata da un antico filosofo (“Omnia mea mecum porto”).
“Hai mangiato?”, gli chiese lo sconosciuto.
“Certo che sì… ieri”. replicò, ironico, l’internato.
Una volta a casa del borghese la freddezza iniziale pian piano si sciolse e si trasformò, gradatamente, in qualcosa d’altro. “La guerra – gli confidò Arno – non l’abbiamo voluta né io né te”. I padroni di casa trattavano Angelo e Ferdinand – un altro recluso, francese, prelevato nello stesso campo – come gente di famiglia. L’italiano era così debole che si sentiva un peso, tanto da chiedere di essere riportato nel lager. La replica di Arno fu decisa: “No, tu sei nostro ospite. Starai qui con noi. Non ti preoccupare per il lavoro”. Poi aggiunse: “Vedi. ho un fratello disperso in Russia. Se fosse vivo, vorrei che fosse trattato come io tratto te e Ferdinand”.
Quando nel 1990, caduto il muro, Arno venne in Italia, ospite di Angelo, spiegò: “Appena l’ho visto, al campo, ho sentito che era un fratello. Ci siamo capiti col cuore, coi sentimenti. Avevamo due figli in più in casa, io e mia moglie. Una famiglia unita, la nostra. Spesso chiedevamo ad Angelo, che aveva una bella voce, di cantare: ci faceva dimenticare le brutture della guerra”.
Da Milano, dove era stato catturato con tutta la sua compagnia, il 12 settembre 1943, Niciarelli – che dopo la fine della guerra era entrato nella Polizia di Stato ed aveva chiuso la sua carriera a Perugia alla Squadra Mobile – arrivò in Germania, dopo un viaggio inenarrabile, chiuso per giorni in vagoni sigillati.
“Mi é rimasta impressa del lager la torre con l’orologio che doveva segnare le 18 al nostro arrivo. Eravamo affamati, assetati, stanchi. Notai una buca piena di acqua e mi ci precipitai sopra per berne qualche sorso. Solo dopo venni a sapere che era lo scarico dei servizi igienici del lager. Anche in quella circostanza presi la mia razione giornaliera di botte. Ci spinsero, coi calci dei fucili, dentro una baracca assegnandomi un posto letto a castello, al quarto piano, quasi a sfiorare il soffitto. Il giorno seguente, 19 settembre, ci adunarono tutti e ci chiesero se volevamo arruolarci nell’esercito tedesco, alleato della Rsi. Aderirono in pochi. Il resto rientrò nelle baracche accettando il calvario. Subito dopo i tedeschi ci fecero ascoltare un discorso di Mussolini indirizzato agli italiani: non servì a nulla. Quello che avevamo visto e patito in quei sia pure pochi giorni era stato sufficiente a farci comprendere che eravamo diventati schiavi di Hitler”.
Nel lager erano ristretti 5000 prigionieri francesi, russi, italiani. I primi offendevano i nostri connazionali. “Non si comportarono bene”, commentò scuotendo la testa Niciarelli. Gli bruciava ancora quel comportamento. Il prigioniero italiano venne condotto nel campo di lavoro Valdau 107. Sulla schiena e sulla gamba destra una scritta: “K G”, prigioniero di guerra. Successivamente ricevette, come gli altri, un’altra sigla: “IMI”, internati militari italiani, e come tali, privi dei diritti stabiliti e previsti dalla convenzione di Ginevra.
La baracca conteneva letti in legno a castello, un materasso con ricci (la piallatura del legno), una stufa a carbone, una tavola, uno sgabello, una coperta leggera per ogni detenuto. I servizi igienici si trovavano in una apposita baracca. Per i bisogni fisiologici notturni, essendo la porta chiusa a chiave, bisognava utilizzare un bidone. Il cibo era scarso: consisteva in verdure, spinaci, rapi, carote, bietole, crauti acidi, rape da foraggio, tutto cotto, in acqua e poco e per nulla lavato. Rare le volte in cui venivano servite patate.
Nel corso di una prova attitudinale, Niciarelli limò perfettamente (“Non so spiegarmi neppure io come feci…”, spiegò) un pezzo di alluminio e venne mandato a lavorare nella fabbrica di aerei Fieseler. Nel suo diario Niciarelli rivela anche una simpatia umana, forse un vero e proprio innamoramento, con una ragazza bionda, carina che lavorava negli uffici dell’azienda. Solo sguardi potevano intercorrere tra i due giovani. Lei gli lasciava, al mattino, sopra il motore elettrico della fresa, due fettine microscopiche di pane nero, tipo cassetta. Erano finissime, ma comunque tutto aiutava a sopravvivere. “Credo che anche io gli piacessi. Il suo sguardo era da innamorata. Comunque di certo lei piaceva a me. Forse gli facevo pena: ero molto magro, pesavo 43 chili. Compresi i milioni di pidocchi bianchi che… ospitavo addosso”.
Nella macelleria e nel mattatoio, Angelo – tra quelle mura non più il detenuto numero 78878 – venne sottoposto, senza saperlo, a prove di onestà. Raccontò: “Girando i locali della macelleria ogni tanto rinvenivo monetine, spiccioli. Li raccoglievo e li consegnavo ad Arno, spiegando i punti in cui li avevo rinvenuti. Lui rispondeva che non li aveva perduti e che quindi non erano suoi. A mia volta replicavo che, sicuramente, non erano neanche miei, per cui toccava a lui trovare il proprietario e restituirglieli. Da quel giorno mi consegnò le chiavi di casa e io potevo uscire e rientrare quando volevo. Certo, nelle ore libere dal lavoro. Dopo un mese riacquistai le forze. Edith, moglie di Arno, mi aveva procurato i medicinali necessari. Ormai ero, a tutti gli effetti, un membro di quella brava e buona famiglia. Più di una volta mi invitavano a cantare ‘Mamma’, la canzone che mi faceva sempre piangere. Edith mi consolava, mi ripeteva di non commuovermi. Facevano in modo di farmi dimenticare gli orrori della guerra”.
Confidò, ancora, Angelo: “Quando ero ristretto nel lager, mangiavo due volte al giorno, se quello si poteva chiamare mangiare. In questa famiglia, invece, consumavo cinque pasti al giorno. Ed il pomeriggio compariva sempre un dolce a merenda. Non ricordo che Edith ed Arno mi abbiano mai rimproverato. In casa loro si lavorava e si mangiava. Avevano anche un parente che gestiva un forno. Non mancava proprio niente. Nella macelleria lavorava pure un dipendente anziano al quale non andavo troppo a genio. Se c’era da fare un lavoro non bello, faticoso, sporco, lo comandava sempre a me. Non so cosa successe. Ma all’improvviso cambiò comportamento: divenni il suo migliore amico. Mi informava anche dell’andamento della guerra e mi assicurava che presto sarei tornato a casa. Anche questo fu merito di certo di Edith e di Arno”.
In un altro passo del diario, Niciarelli – scomparso da una decina di anni – ha scritto: “Un mattino Arno mi convocò per dirmi che saremmo andati a fare visita alla famiglia di Edith. Salimmo in auto, ma fatti pochi chilometri, sopraggiunsero gli aerei alleati a bassissima quota. Si vedevano i piloti. Cominciarono a mitragliare la strada: gli alleati, ormai, erano padroni del cielo, non trovando più resistenza. Noi ci salvammo riparando sotto un piccolo ponte della strada che stavamo percorrendo. Pensai: ‘Un buon segno per la fine della guerra’. Verso la fine del 1944 ed i primi del 1945 si iniziarono a sentire le cannonate. Sia pure da lontano”.
In questi mesi Angelo, grazie a due giovani tedeschi che lavoravano anche loro nella macelleria, conobbe Hanna. I due tedeschi e la sorella di Hanna amavano pattinare. Lui e la ragazza, invece, si appartavano a chiacchierare. Nacque così una simpatia, sfociata presto in amore. “Eravamo fidanzati. Io piacevo a lei, lei garbava, e molto, a me. Una sera, intorno alle 23, ci trovavamo sulla strada diretta a Nordhausen, quando sopraggiunse, provenendo dal sud, una colonna di camion dell’esercito tedesco, ormai ringraziando Dio, in disfatta. Ci notarono ai margini della strada alla periferia del paese ed una camionetta si avvicinò. Hanna comprese immediatamente il rischio che stavo correndo, per cui mi bisbigliò all’orecchio: ‘Tu, Angelo, sei sordomuto. Lascia parlare me’. I militari discesero dal mezzo, armi in pugno e ci chiesero i documenti. Hanna rispose che abitavamo nelle vicinanze. ‘Questo è mio fratello, ma è sordomuto’. Mi fissarono con insistenza, poi per intercessione del buon Dio che non mi ha mai abbandonato per un istante, ordinarono seccamente: ‘Andate a casa’. Non ce lo facemmo ripetere due volte”. Non tutti i tedeschi si comportavano da crudeli nazisti.
Anche grazie ad Hanna, Angelo Niciarelli è potuto tornare a casa sua, Parrano, vicino Orvieto, sano e salvo. E non ha mai dimenticato gli amici ai quali deve la vita. “I primi giorni di aprile, ad esser precisi la vigilia di Pasqua, le forze alleate si trovavano proprio a sud nella zona di Nordhausen, nelle vicinanze di Mittelbau-Dora, luogo della galleria sotterranea in cui i nazisti producevano l’arma micidiale, V1-V2 e dove era stato installato, pure, un campo di sterminio. Il mattino del 9 o 10 aprile, le prime truppe alleate giunsero a Obergebra. Il francese Ferdinad ed io ci portammo sulla strada ormai invasa dalla IX armata americana. Non posso descrivere la gioia che provavamo. Centinaia e centinaia di automezzi, camion, jeep, carri armati, motociclisti. Vedendo scorrere tutto questo apparato militare, ci dicemmo: ‘Ma con tutti questi mezzi quanto tempo hanno impiegato a liberarci?’. La sera della liberazione eravamo tutti a casa quando sentimmo bussare, con insistenza, alla porta. Andai ad aprire. Mi trovai di fronte militari americani ubriachi fradici che con fare minaccioso e armi in pugno, chiedevano liquori da bere e donne per fare l’amore. Tra di loro anche italo-americani. Riuscii a calmarli, qualificandomi come prigioniero italiano in compagnia di un prigioniero francese, Ferdinand. Offrimmo birra e, per fortuna, tutto finì nel migliore dei modi. Quando se ne andarono, Arno mi abbracciò e mi ringraziò per quanto avevo fatto salvando, così, sua moglie da violenza sicura. Posso confermare che veramente la salvai, ed ancora oggi del mio gesto vado fiero ed orgoglioso. Avrebbero, in mia presenza, violentato mia madre”.
Lunga anche la strada del ritorno. Con un’auto “requisita”, una Bmw, all’interno di una segheria e con un pacco di vettovaglie preparato da Edith e Arno Kroll, Angelo e un gruppetto di italiani partirono. Sul cofano avevano fissato una bandiera italiana. Un viaggio stressante, proseguito in treno e, infine, l’abbraccio con i familiari. “Appresi dai miei – confidò – che Adriano Sordini e Fernando Esposito ed altri paesani, partiti per la guerra, erano rientrati in pessime condizioni generali. Achille di Cantone era deceduto e un altro giovane di Manzano era ritornato tutto pelle ed ossa e non con le piene facoltà di intendere e di volere. Io invece mi sentivo e apparivo in buona salute, grazie ai miei due ‘genitori’ tedeschi”.
Mentre Angelo Niciarelli riprendeva la sua vita, Arno, Edith ed i loro figlioletti, Horest ed Hanna, attraversavano momenti terribili. Dopo il crollo del nazismo, la Germania dell’Est cadde infatti sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. Ed i Kroll vennero considerati quali soggetti da de-nazificare, per il fatto di aver fornito la carne all’esercito hitleriano. Subirono il sequestro di tutti i loro beni, a cominciare dall’abitazione e dalla macelleria. Arno, addirittura, finì in prigione per otto lunghi anni e fu costretto a lavorare nelle miniere di sale.
Angelo di queste tribolazioni patite dai suoi amici non sapeva nulla. Ma quando, nel 1970, andò a trovare i suoi salvatori, al di là del muro di Berlino, trovò una famiglia in condizioni disagiate, emarginata, distrutta economicamente, oltre che nel morale. Niciarelli cercò di aiutare i suoi amici scrivendo una lettera al borgomastro e al segretario del partito comunista di Obergebra, spiegando come i Kroll si fossero comportati bene, con lui e con un altro prigioniero, durante la guerra. Le sue missive non ottennero risposta. Solo dopo la caduta del comunismo, il 26 giugno 1990, Arno ed Edith Kroll furono in grado di venire in Italia: lui a 80 anni, lei a 76, ospiti del loro “figlio” italiano. Il quale non li ha mai dimenticati.
Perché anche negli orrori e nella barbarie di una guerra senza pietà, alle volte, i cuori si sciolgono nella solidarietà e nella fratellanza.
CHI ERA
Angelo Niciarelli, nato il 15 ottobre 1923, nella casa dei suoi (il padre Arduino, detto il Cicciaio, in quanto macellaio e la madre Laura Filippetti) in via Roma, partì per la guerra il 18 gennaio 1943 ed ebbe il ruolo di “esploratore” nell’89simo reggimento fanteria, divisione Cosseria, terza compagnia, di stanza a Bolzaneto di Genova. Ha poi prestato servizio da anti paracadutista a Bolzano e Sturla, nel genovese, a Saluzzo nel torinese, a Riprafratta in Lucchesia, infine a Monza e Milano. Nel capoluogo lombardo era impegnato in servizi di prevenzione alla stazione ferroviaria. Venne fatto prigioniero il 12 settembre 1943, a Milano. Finita la guerra, Niciarelli è entrato nella Polizia di Stato prima a Modena, poi a Perugia, dove è rimasto in forza alla Squadra mobile per lustri e dove ha risolto o contribuito a risolvere molti casi giudiziari, tra cui diversi omicidi (famoso quello di una prostituta uccisa e fatta a pezzi e gettata nel Topino, da un anziano che si era innamorato di lei, che lo aveva respinto).
Si è spento una decina di anni fa, lasciando la moglie Genoveffa e due figlie.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, la partenza dei militari italiani per i lager in Germania
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