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Infradito? Gli Egizi già le indossavano

di | 2019-12-28T09:50:09+01:00 29-12-2019 6:05|Cultura, Sezione 2|0 Commenti

TORINO – Alzi la mano chi non ha mai usato, magari in spiaggia, i sandali infradito. Almeno una volta, tutti. A chiedere, però, quando siano stati inventati arrivano le risposte più disparate e improbabili. La maggioranza afferma che siano una “scoperta” recente. Invece… Invece gli infradito sono vecchi, molto vecchi. Basta entrare al Museo Egizio di Torino per trovarsi di fronte a sandali infradito di quattromila anni fa. O giù di lì. Se ne ammirano di più semplici, utilizzati dalle classe più umili, come i contadini, ma pure da quelle medie e di più ricercati ed eleganti, calzati da scribi, da sacerdoti, perfino dal faraone e dai suoi familiari. Le calzature di questi ultimi, fatte di palma intrecciata, presentano una suola lavorata a lisca di pesce e un bordo rialzato per contenere meglio il piede; la punta è curvata all’indietro e fissata ad un laccio collegato all’altezza del tacco di una scarpa odierna. Gli altri, i più economici, sembrano proprio quelli di oggi.

Prodotti da mani esperte con foglie di palma e papiro e qualche volta con parti di cuoio. Qualche faraone – esagerato e vanaglorioso – se li faceva confezionare addirittura in oro. Altri regnanti commissionavano ad abili artigiani di raffigurare sotto la suola, per sfregio, i loro nemici di sempre (assiri, babilonesi, nubiani). Vuoi mettere la soddisfazione di calpestare continuamente gli odiati avversari? Tutankhamen, nella sua tomba, aveva ordinato che ne venissero collocati un centinaio, per non rischiare di rimanere – nell’aldilà – a piedi nudi… Insomma: nulla di nuovo sotto il sole. Quello che è stato è e, forse, quello che è, sarà (come si legge nella Bibbia).

Ma le curiosità del Museo Egizio di Torino, tra i più ricchi di reperti insieme a quello de Il Cairo e del British di Londra, non si fermano qui. E’ possibile ammirare le mummie di animali domestici (come cani e gatti) e persino di scimmie e coccodrilli. Oppure restare a bocca aperta davanti ad un letto con tanto di rete, costruito ben prima che Ulisse – come si narra nell’Odissea – intagliasse il suo talamo, nella reggia di Itaca, nel tronco di un grande ulivo, molto più spartano e sicuramente meno comodo. Spesso gli egizi, nel quotidiano, indossavano sul capo – un po’ per farsi belli, un po’ per riparare il cranio, quasi sempre rasato, dal sole – una parrucca. Le regine, ovviamente, ne facevano intenso uso. Nel busto esposto, Nefertiti, la splendida moglie di Amenofi IV, si presenta con un copricapo alla sommità del quale è posto un piccolo velenoso cobra, serpente sacro, simbolo di sovranità. Altre si facevano sistemare, invece, un avvoltoio o delle teste di sparviero, quale richiamo ad una dea protettrice.

Anche i gioielli appassionavano gli egizi, uomini e donne: collane, bracciali, orecchini, persino cavigliere, in oro, argento, con perle, con pietre preziose (lapislazzuli, corniola, turchese), con smalti, con ceramica o paste invetriate. Di ogni tipo, pure, gli orecchini: Nefertari, la sposa di Ramses II, ne indossava, nella statua che si era fatta scolpire, un paio a forma di serpente. Alcuni di questi monili svolgevano una funzione protettiva, da amuleti. Cosmesi e profumi tenevano un posto d’onore nelle abitazioni e nei palazzi. Per lavarsi gli egizi utilizzavano oli vegetali e grasso animale o paste costituite da impasti di sale, cenere, argilla, miele. Di unguenti ne venivano utilizzati d’ogni specie e provenienza.

Non mancava il deodorante: palline di carruba ovviavano ai cattivi effluvi. Ricercatissimo il trucco delle donne che, in particolare, col nero o col verde ponevano in risalto gli occhi e le sopracciglia; con altri ritrovati si tingevano, inoltre, le labbra (rosse o rosa), le unghie (mani e piedi), le palme e financo i capezzoli. Per i produrre i profumi venivano utilizzati, tra l’altro, il loto, i petali di giglio, le resine (incenso, mirra, laudano). Come é riuscita Torino a dotarsi di un Museo così ricco, nella qualità e nel numero, di reperti egizi? Merito di Carlo Felice che nel 1824 acquistò la collezione di un piemontese, Bernardino Drovetti, che aveva fatto fortuna sotto Napoleone e che era stato, poi, nominato console di Francia in Egitto. Questa preziosa raccolta – costata al re sabaudo 400mila lire del tempo – venne riunita alla “Mensa Isiaca”, una tavoletta in bronzo (gentile dono, nel Seicento, dei Gonzaga di Mantova ai Savoia; pare fosse appertenuta al cardinale e umanista Bembo), il “libro dei morti” (testo funerario di epoca tolemaica) e alla statua della Dea Sekhmet (che Vitaliano Donati, nel Settecento, aveva riportato da Karnak per il re Carlo Emanuele III.

L’arricchimento decisivo del museo, comunque, fu opera di Ernesto Schiaparelli (1856-1928), che, nominato direttore, iniziò nei primi anni del Novecento, campagne di scavo a Giza, Ashmunein, Eliopoli, Anteopoli, Gebelein, Deir El Medina. In quest’ultima località venne portata alla luce la tomba, ritrovata intatta, di Kha e della moglie Merit, che nell’ultimo viaggio, tra i tanti oggetti, si erano portati appresso, anche un passatempo: il “senet”, sorta di gioco tra la dama e gli scacchi. L’eternità è infinita e Kha e la sua donna avranno ritenuto che un gioco potesse servire ad … ammazzare il tempo.

Elio Clero Bertoldi

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