MILANO – Il più intollerabile degli omicidi è l’infanticidio perfino nella violenta cornice del nostro mondo che ha declassato il dolore a mera notizia di cronaca, favorendo una sorta di processo di anestesia del cuore e di assuefazione al crimine. L’assassinio di un bambino ad opera del proprio genitore si connota come azione sacrilega e suscita orrore, turba le coscienze come un atto contro la stessa umanità. Pochi giorni fa i carabinieri di Bergamo hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare per una giovane donna indagata per duplice infanticidio: è accusata di aver ucciso i suoi due figli, una bambina di 4 mesi nel 2021 ed il fratellino di due nel 2022. Le indagini hanno accertato che per il secondo neonato la causa sia “inequivocabilmente un’asfissia meccanica acuta da compressione del torace” e, sempre secondo gli investigatori, che essa sia stata frutto di “un’azione volontaria, che evidenziava l’obiettivo di causare la morte del bambino in un abbraccio mortale”.
Si riteneva che i due decessi si fossero verificati per cause naturali, le cosiddette “morti da culla”, ma situazioni simili e reiterate hanno destato molti sospetti e portato all’avvio di accertamenti tuttora in corso. Al momento non sono emersi problemi di natura psichica della donna, che tuttavia avrebbe agito perché non in grado di “reggere alla frustrazione del pianto prolungato dei bambini”; già gli stessi medici ospedalieri, che avevano prestato i primi soccorsi ai bambini, avevano invitato tutti i familiari a dimostrarle maggiore vicinanza e sostegno. Il prosieguo delle indagini potrà stabilire la verità, anche riesumando il corpo, da sottoporre ad autopsia, della bambina deceduta nel 2021.
Quella dell’infanticidio è purtroppo una storia le cui origini si perdono nella notte dei tempi, quando gli dei divoravano i propri figli e gli uomini offrivano in sacrificio sulle are insanguinate i loro primogeniti. Nella Grecia antica già le legislazioni di Licurgo e di Solone consentivano l’abbandono e gli infanticidi; soprattutto quello delle bambine, perché esse sarebbero state un peso per la famiglia che doveva dar loro la dote per trovare marito; parimenti nessuna remora morale impediva l’eliminazione dei figli “non sani”. Nell’antica Roma il fenomeno presentava le stesse modalità: il bambino era un “nihil”, una semplice cosa, il cui destino dipendeva dalla patria potestas esercitata dal padre, il pater familias. Dopo la nascita, il genitore col rito dell’elevatio (elevazione) lo sollevava all’altezza degli occhi per il riconoscimento formale; in caso di rifiuto si procedeva con l’expositio (esposizione) fuori dalla porta di casa.
I luoghi dell’abbandono in Roma erano le rive del Tevere oppure il Foro Olimpico, dove sorgeva la “Colonna lattaria”, frequentata da una turpe umanità fatta di maghe ed aruspici che usavano i corpi dei bambini esposti per la preparazione di filtri o esperimenti magici; o peggio di nutritores o nutricatores (allevatori) che li prendevano per farne schiavi, gladiatori, eunuchi, prostitute. Spesso nei siti archeologici si trovano una gran quantità di tegole lontane dai tetti, copertura pietosa posta a protezione dei corpicini dei neonati rifiutati ed abbandonati alla furia degli elementi naturali ed alla ferocia degli animali.
L’avvento del Cristianesimo portò un’aria di rinnovamento, che mise in primo piano la necessità di rispettare la vita umana e la sua sacralità; certo i neonati continuarono ad essere abbandonati sui sagrati delle chiese, più tardi nella “ruota degli esposti” ed è indubbio che le acque dei fiumi continuarono a riceverne un cospicuo numero. Il passare dei secoli ed il progredire del pensiero umano hanno poi sensibilizzato l’opinione pubblica e cambiato l’approccio al problema, soprattutto in termini di tutela giuridica. Nel mito una figura, in particolare, è da sempre considerata icona di questa tragica azione: Medea, protagonista problematica ed inquietante della omonima tragedia di Euripide rappresentata nel 431 a.C.
L’antefatto del dramma ci presenta una giovane donna che utilizza le sue arti magiche per aiutare l’amato Giasone a conquistare il Vello d’oro, tradendo così suo padre e la sua patria. La stessa, dopo essersi imbarcata sulla nave Argo, per ritardare gli inseguitori uccide suo fratello Apsirto, gettandone in mare il cadavere fatto a pezzi. Il nucleo della tragedia si sviluppa a Corinto, dove i due si sono rifugiati e dove Giasone cede alle lusinghe del sovrano Creonte, decidendo di sposarne la figlia Glauce (o Creusa). Medea, fingendosi rassegnata, medita una feroce vendetta e provoca la morte della rivale e di suo padre, offrendo in dono un peplo finemente ricamato ed un diadema avvelenati che, se toccati, avrebbero provocato una fine dolorosa. Uccide poi i propri figli per far soffrire ulteriormente Giasone, soffocando il suo spirito materno: “Uccidere i figli per rovinare la casa di Giasone. Nulla potrebbe meglio ferire il cuore del mio sposo”.
Al vissuto di espulsione dalla terra natia, di ribellione ed odio nei confronti del padre, di fratricidio ed a quello di emarginazione dalla città ospitante si aggiunge il sentimento di abbandono per il ripudio del marito. Aspetti della personalità di Medea che la rendono contemporanea, poiché tante donne vivono uno stato di isolamento, sofferenza ed esclusione. La maternità è ancora considerata un gesto individuale delle madri che spesso sono lasciate sole, al contrario la nascita di un figlio non dovrebbe mai imboccare il tunnel della disperazione e dell’abbandono. Del resto è uno dei paradossi della nostra società l’idealizzare la figura della donna prima di tutto come madre, ma senza offrire alcun sostegno.
Molto carente è infatti la legislazione a tutela della maternità e si commentano da soli i dati che riportano il numero delle donne costrette ad abbandonare il lavoro per prendersi cura dei propri figli o ancora quelli degli asili nido operanti, per non parlare dell’esiguità dei cosiddetti assegni familiari. Al momento i posti negli asili nido coprono in media il 27,2 per cento dei bambini sul territorio nazionale, ma con forti disuguaglianze per il Sud e le zone interne. L’UE ha formalmente invitato l’Italia a raggiungere il 45% entro il 2030, tuttavia l’obiettivo resta lontano. Per l’infanticidio è prevista dal Codice Penale (art.578) la reclusione da 4 a 12 anni, ma è innegabile che sarebbe soprattutto necessario provvedere ad un piano strutturato di sostegno a livello psicologico, economico e sociale finalizzato a salvaguardare la madre ed il nascituro sin dalle prime fasi della gravidanza, rendendo la maternità una scelta matura e responsabile. Forse, in definitiva, basterebbe essere tutti un po’ più consapevoli che talvolta “l’infanticidio può nascere dalla durezza della vita piuttosto che dalla durezza del cuore”.
Adele Reale
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