Li chiamano Neet, acronimo inglese che proviene da Not (engaged) in education, employment or training: letteralmente “Non (attivo) in istruzione, in lavoro o in formazione”. Cioè una persona che in un dato momento non studia, né lavora né si impegna in qualche altra forma di perfezionamento (tirocini, periodi di apprendistato e corsi professionalizzanti). In italiano si preferisce usare l’espressione persona inattiva. Sul perché ad un certo punto della propria esistenza si diventi persona inattiva o Neet, che dir si voglia, le ragioni sono molteplici: scarse motivazioni, delusione, anche scelte personali. Ma va detto che la maggioranza di questi giovani (già perché il fenomeno colpisce soprattutto la fascia d’età che va dai 15 ai 29 anni) vive in territori dove si registrano scarsa produttività e disuguaglianza sociale e pure a causa della scarsa conoscenza del mondo del lavoro e dell’assenza di un adeguato orientamento scolastico.
Una lunga, ma necessaria, premessa per arrivare alla notizia, più che preoccupante: l’Istat certifica infatti che gli indicatori del benessere dei giovani, in Italia, sono ai livelli più bassi in Europa e, nel 2022, quasi un ragazzo su due tra 18 e 34 anni ha manifestato almeno un segnale di “deprivazione”: 4 milioni e 870 mila persone. Il numero rende meglio di ogni parola la quantità e la qualità del fenomeno.
Il fenomeno si associa a un tasso di disoccupazione giovanile elevato (il 18%, quasi 7 punti superiore a quello medio europeo), con una quota di giovani in cerca di lavoro da almeno 12 mesi tripla (8,8%) rispetto alla media europea (2,8%). Circa un terzo dei Neet (559 mila) è disoccupato, nella metà dei casi da almeno 12 mesi (il 62,% nel Mezzogiorno, contro il 39,5% nel Nord). Mentre quasi il 38% (629 mila) non cerca lavoro né è disponibile a lavorare immediatamente. Quest’ultimo gruppo si divide tra chi è in attesa di intraprendere un percorso formativo (il 47,5% tra i ragazzi), chi dichiara motivi di cura dei figli o di altri familiari non autosufficienti (il 46,2% tra le ragazze) e chi indica problemi di salute; solo il 3,3% dichiara di non avere interesse o bisogno di lavorare. Solo un terzo ha avuto precedenti esperienze lavorative, un valore che varia tra il 6,8% per chi ha meno di 20 anni, il 46,7% per chi ha 25-29 anni
Un ultimo dato particolarmente inquietante: circa un milione e 300 mila ragazzi vivono da figli ancora nella famiglia di origine. Il che significa molto semplicemente che stipendi dei genitori e pensioni dei nonni, quando ancora ci sono, servono a mantenere un certo tenore di vita. Costoro furono definiti col termine, non particolarmente elegante, “bamboccioni” o anche choosy (viziati) o, come li definì Michele Serra, “sdraiati”. Sicuramente, esistono casi di giovani (o ex) che preferiscono la vita comoda a casa dei genitori all’impegno quotidiano, ma non si possono sottacere che spesso sono le condizioni sociali ed economiche dei gruppi di provenienza e delle famiglie di appartenenza a determinare in maniera pesante la possibilità di uscire precocemente dal nucleo familiare affrontando in proprio la “sfida della vita”.
In Sicilia la stima di Neet è del 37,5%, in Calabria del 34,6%, in Campania del 34,5%. Al vertice opposto della classifica Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Ugualmente l’incidenza dei giovani fuori dal mercato del lavoro e da qualsiasi percorso di formazione è più elevata tra le grandi città meridionali: Napoli (22,8%), Palermo (19,9%), Bari (15,2%), mentre di contro a Roma la quota è del 10,70%, Milano dell’8,10%, a Torino dell’11,20%. Nelle città, infine, non è affatto casuale che sono i quartieri popolari a vedere una maggiore concentrazione di questa categoria sociale. Ad esempio, nella Capitale, mentre nei quartieri Monte Sacro e Trieste la percentuale è del 6%, a Torre Angela, nella periferia orientale del comune, si raggiunge il 13,9%. A Milano si passa dal 12,2% di Quarto Oggiaro al 5% di corso di Buenos Aires-Venezia.
La sintesi è che spesso mancano le condizioni essenziali per uscire dalla situazione di persona inattiva: il compito dei governanti, degli amministratori e di tutte le istituzioni è semplicemente quello di rimuovere ogni tipo di ostacolo. E’ vero, il lavoro non si crea per legge, ma l’azione legislativa può e deve favorire l’integrazione e la creazione di solide basi dalle quali partire o ricominciare.
Buona domenica.
Lascia un commento