PERUGIA – Io sto dalla parte di Antigone. Al fianco di Indi e dei suoi genitori. Alla piccina di appena otto mesi che, per decisione dei medici prima e dei giudici dell’Alta Corte Britannica, poi, sono stati staccati i tubi e sono state interrotte le terapie che l’aiutavano a respirare ed a vivere. Correvano le 1 e 45’ del 13 novembre scorso. Data da rammentare: nigro notanda lapillo (da segnare con una pietruzza nera). Indy soffriva dalla nascita di una malattia rarissima, crudele e inguaribile: la “sindrome da deplezione del DNA mitocondriale”.
Qualcuno farà notare (c’è chi lo ha già fatto), che la discussione intorno al destino della piccina inglese (e pure cittadina italiana, negli ultimi giorni della sua sfortunata esistenza) in concomitanza delle centinaia e centinaia, anzi migliaia, di bambini che muoiono tragicamente per il terrorismo e le guerre (i bambini sotto i razzi ed i droni in Ucraina; quelli sgozzati senza pietà alcuna da Hamas in Israele ed i ragazzini palestinesi massacrati, cinicamente come “danni collaterali”, dalle bombe israeliane di ritorsione) rischia di risultare fuori luogo: un dibattito che stona, insomma. E, per certi versi, l’obiezione presenta una sua significanza, una sua valenza. Tuttavia resta il fatto dell’importanza di trattare questi argomenti delicati, toccanti e scottanti. Perché i piccini ucraìni, israeliani e palestinesi (come quelli di tanti altri paesi dove si registrano “guerre dimenticate”) sono vittime della cattiveria e della crudeltà diretta e volontaria di uomini accecati dall’odio (e guidati dall’arcaico “occhio per occhio, dente per dente”) che le guerre si portano sempre appresso, quale sanguinoso fardello. Purtroppo.
Nel caso di Indi, invece, la decisione della sua fine scaturisce dalla interpretazione della legge, medica in primis e giuridica, poi, assunta a freddo: sine ira et studio (senza animosità e parzialità), per dirla coi giuristi. Ma le leggi, come faceva notare già duemila e quattrocento anni or sono, Sofocle nella sua tragedia “Antigone”, talvolta non corrispondono ai sentimenti umani più profondi e insopprimibili. Almeno per certe coscienze. L’eroina tebana, cui era stato vietato secundum legem (o in forza della norma, decisa e varata dal re Creonte, suo zio per parte di madre e futuro suocero, almeno in pectore) di seppellire la salma del fratello Polinice – morto combattendo contro l’altro fratello, Eteocle, pure lui deceduto nello scontro fratricida, ma per il quale, avendo impugnato le armi a favore del regno di Tebe, l’inumazione era consentita ed anzi favorita – disobbedì all’editto reale, ritenuto inumano e sparse terra sul corpo del congiunto, avviandosi con passo fermo e deciso, incontro a morte certa.
Adesso che Indi è spirata può apparire vana, inutile la discussione. No, non è affatto così. Il problema può riproporsi un domani, in altri casi simili o analoghi. E, pertanto, urge riconoscere giuridicamente il principio, se possibile a livello universale (come universale dovrebbe essere il sentimento di pietas), che stabilisca come in evenienze tragiche come quella della piccola italo-inglese, sia pure in presenza di una decisione medica di morte certa, di irreversibilità della patologia, non si ricorra alla giustificazione del cosiddetto “accanimento terapeutico” per staccare i fili e trasformarsi in altrettante Atropo, ma si ascolti la voce dell’anima. E se l’interessato non è in grado, per l’età o per la gravità della malattia, di esprimere il proprio parere, si tenga conto della volontà dei genitori, dei parenti o di coloro che si prendono cura del sofferente, se non si debba ricorrere ad ogni tentativo, umanamente possibile, per tentare fino all’ultimo soffio, di salvare la vita della persona, piccola o adulta che sia. Il cuore dell’uomo (et quorum ego) tali comportamenti, scelte simili suggerisce.
Elio Clero Bertoldi
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