TARANTO – Il Tarim, nella regione autonoma dello Xinjiang, all’estremo nordovest della Repubblica Popolare Cinese, è un posto davvero inospitale: un deserto sabbioso di un milione di chilometri quadrati a duemila metri di altitudine, circondato da montagne impervie, isolato da tutto e da tutti. È ciò che resta di un lago poco profondo, forse una palude, che nel Bronzo Medio drenava le acque dell’immenso bacino idrografico del fiume Tarim.
Nel secolo scorso, in quest’area desertica, vennero rinvenute diverse mummie, perfettamente conservate, appartenenti ad un popolo ivi residente tra il 2000 ed il 1000 a.C. I corpi si trovavano distesi in piccole “canoe” coperte da pelli bovine, ancorate a lunghi pali in legno infissi nel fondale: un cimitero lacustre. Le mummie, vestite con indumenti in lana di buona fattura, erano letteralmente ricoperte da spighe di grano ed orzo, pezzi di formaggio fermentato e, invariabilmente, molti rametti di Ephedra, un arbusto contenente l’alcaloide efedrina.
Reperti di questo tipo sono molto rari, ma non eccezionali. Ciò che, al contrario, rendeva straordinaria la scoperta erano le caratteristiche fisionomiche dell’antica popolazione: individui di alta statura, con la pelle chiara, i capelli biondi, gli occhi di taglio europeo, nulla a che vedere con i limitrofi gruppi etnici coevi. Qualcuno, di sicuro, avrà pensato ad extraterrestri…
Sono state formulate diverse ipotesi per spiegare la presenza di una popolazione dai tratti somatici europei nel nord della Cina: si è pensato a pastori nomadi migrati dalla Siberia o dall’odierno Turkmenistan o dall’Iran o dalla Mongolia. Il nomadismo, tuttavia, mal si concilia con l’esercizio di pratiche colturali rivolte alla produzione di grano ed orzo: quelle genti allevavano bovini e ovini e coltivavano la terra, sicché avevano, quanto meno nel primo-secondo millennio avanti Cristo, abitudini stanziali. Se, poi, pensarono di realizzare un cimitero che frequentarono per secoli, difficilmente potevano essere nomadi! Forse i loro antenati lo erano e magari provenivano proprio da quelle aree: in tal caso il loro genoma avrebbe dovuto presentare molti tratti in comune con le popolazioni d’origine. Solo indagini di genetica comparata potevano fornire risposte a tali quesiti.
Nel novembre del 2021, un vasto team di scienziati cinesi, sud-coreani, tedeschi ed americani ha pubblicato, sulla prestigiosa rivista internazionale Nature, i risultati di un complesso studio sulle mummie del Tarim. Gli studiosi hanno esaminato il genoma di 13 individui, vissuti tra il 2100 e il 1700 a.C., comparandolo con quello di 5 mummie più antiche, ritrovate in zone prossime al bacino.
Con una certa sorpresa si è appurato che i tredici individui appartenevano ad «una popolazione locale, geneticamente isolata, che adottò pratiche pastorali e agricole vicine, che consentirono loro di stabilirsi e prosperare lungo le mutevoli oasi fluviali del deserto del Taklamakan». “Isolamento genetico” significa endogamia e, probabilmente, poligamia; “adozione di pratiche agro-zootecniche” esogene presuppone l’esistenza di estesi scambi culturali e, probabilmente, commerciali con popolazioni viciniori.
In una: la gente del Tarim non ha vissuto migrazioni ma si è evoluta lì, come su una lontana isola nell’oceano aperto, rifiutando di “imparentarsi” con altri gruppi umani ma attivando con loro intensi traffici ideali e mercantili. Le mummie del bacino del Tarim ci insegnano, dunque, che l’autarchia culturale è una follia; la biologia, dal canto suo, ammonisce che l’autarchia genetica è possibile ma assai pericolosa.
Riccardo Della Ricca
Nell’immagine di copertina, Biancaneve, una delle mummie ritrovate nel bacino del fiume Tarim
Lascia un commento