ROMA – Einaudi Editore ha presentato nella Sala Casella dell’Accademia Filarmonica Romana, il 5 dicembre scorso, “Il Testamento di Heiligenstadt” e i “Quaderni di Conversazione” di Ludwig van Beethoven, tradotti in italiano e commentati dal musicologo Sandro Cappelletto. Alla presentazione sono intervenuti, accanto allo stesso autore, lo storico dell’arte Claudio Strinati, il compositore Matteo D’Amico, il pianista Dimitri Malignan che ha poi eseguito – di Beethoven – quattro Bagatelle dall’op.126 e l’Andante dalla Sonata op.109.
Se i 139 Quaderni di conversazione rimastici sono taccuini, necessari a tenere per iscritto i dialoghi col prossimo, da parte di un artista ormai sordo quasi del tutto, come fu per destino il grandissimo Beethoven, invece ben altro fu il Testamento di Heiligenstadt. Sì, un testamento, scritto dal giovane Beethoven nell’ottobre 1802, quando era appena trentaduenne: e i motivi c’erano. Fu redatto a mano su un foglio, che doveva essere consegnato ai fratelli Karl e Johann dopo la sua morte. Cosa che non avvenne: fu in seguito ritrovato in un mobile della sua casa nel sobborgo di Heiligenstadt, insieme con la lettera all’Immortale Amata e pochi altri oggetti.
Per noi, per l’umanità esso è un cimelio: è la prima testimonianza dell’immane sofferenza sopportata da Beethoven, da allora alla fine della sua esistenza. Tutti ormai sanno che egli non pativa per il non udire più la musica – che affermava di sentire con l’anima – ma per il non percepire i suoni amatissimi della Natura (la Sinfonia Pastorale) e quelli dell’uomo: cosa che accresceva l’isolamento dolorosissimo del compositore, che persino nel Testamento ricorda come, accanto a lui, degli amici sentivano un flauto lontano (e lui niente), oppure il canto di un contadino (e lui niente)…
Beethoven fu più volte sul punto di togliersi la vita: cosa fu più potente di tale sua insostenibile sofferenza interna, cosa fu più potente di tutto, visto che (e ce ne parla la sua lettera a Franz Wegler nel 1801) ormai poteva chiedere quanto voleva agli editori, e subito otteneva? Non il denaro poteva lenire la sua sofferenza, non l’amore per Giulietta Guicciardi (che sposò un altro), ma la Musica sì. “La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto”, scrisse nel Testamento di Heiligenstadt: “Trasportarsi nel cielo dell’arte: non vi è gioia più pura di quella che viene di la”.
Impellente era in Beethoven l’impulso a scrivere musica: aveva tutto nella sua vulcanica mente e avvertiva l’obbligo morale di renderlo pubblico. “Mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di avere creato tutte quelle opere, che sentivo l’imperioso bisogno di comporre”. Grande Beethoven, che scrisse tanta stupenda musica per sollevare moralmente, innalzare e arricchire di bellezza tutta l’umanità, affidando intero questo messaggio all’ultima e imperiale sua Nona Sinfonia.
Paola Pariset
Nell’immagine di copertina, la casa di Heiligenstadt (un sobborgo di Vienna) dove fu ritrovato il testamento di Beethoven
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