TARANTO – Vacanze calde, vacanze al mare, vacanze in Puglia: sole accecante, scultorei ulivi secolari, acque caraibiche, sapori e cibo deliziosi, reperti storici e tradizioni popolari che evocano un passato ricco e fiorente, immagini meno armoniche di un presente spesso trascurato e maltrattato. “Apulia siticulosa, terra aspra e afosa, sitibonda”, così la definiva Orazio, quando scriveva nel terzo Epodo (ed. 30 a.C.) siderum insedit vapor siticulosae Apuliae (né mai calò dalle stelle tanta afa sulla Puglia assetata) e paragonava l’arsura del territorio al bruciore che mangiare l’aglio, ingrediente di una pietanza offertagli da Augusto, aveva procurato al suo stomaco.
Del resto uno degli etimi per il termine Puglia è a-pluvia, priva di piogge, siticulosa appunto, mentre un altro farebbe derivare il nome attuale da Iapudia ovvero “terra degli Iapigi”, che nel 550 a.C. circa, giunsero in Puglia dall’altra sponda dell’Adriatico (probabilmente dalla Croazia) e, a seguito della fusione con le altre popolazioni locali, diedero vita ai vari sottogruppi dei Dauni, Peuceti e Messapi.
Oggi tanti invasi e dighe sono presenti sul territorio pugliese, ma spesso l’acqua ha una fine assurda. In Capitanata milioni di metri cubi della diga di Occhito finiscono in mare perché la Protezione civile “impone” che la diga, che potrebbe contenere 250 milioni di metri cubi, ne rilasci circa 40 milioni per evitare piene improvvise, a causa dei carenti e talvolta del tutto assenti interventi di manutenzione ordinaria. Occorrerebbero altre opere idriche, ma l’amara beffa è che i progetti ci sono, i fondi per realizzarli anche, ma nulla viene fatto e, nel frattempo, Foggia e la sua estesa provincia devono fare i conti ogni anno con la carenza di acqua sia potabile che irrigua.
Sino alla prima metà del ‘900, non era raro vedere in questi territori girare per le stradine dei vari paesi l’acquaiolo con il secchio del suo prezioso oro blu ed in ogni casa c’erano delle giare enormi (capasoni) da cui, con un mestolo di rame, si attingeva l’acqua per il fabbisogno quotidiano. L’opera mastodontica che pose rimedio alla grave carenza idrica di tutta la regione fu sicuramente la costruzione dell’Acquedotto Pugliese. L’ingegnere Camillo Rosalba, funzionario del Genio Civile, considerato il vero ispiratore dell’Acquedotto nella sua struttura di base, già dal 1868 suggeriva l’ambizioso progetto di utilizzare le abbondanti sorgenti idriche del versante occidentale degli Appennini, mediante la realizzazione di alcune gallerie e indicava come adeguata la sorgente del Sele, in provincia di Avellino.
La realizzazione di un’opera del genere presentava costi enormi e difficoltà insormontabili; tanto che solo nel 1906 venne costituito il primo Consiglio di Amministrazione del Consorzio per l’Acquedotto Pugliese e, alle sorgenti Madonna della Sanità di Caposele, cominciarono i lavori per lo scavo della grande galleria dell’Appennino e le opere di captazione delle acque. I cantieri, aperti pochi giorni prima dello scoppio del primo conflitto mondiale, ripresero le attività solo alla fine delle ostilità e tutte le province furono finalmente collegate.
In un suo recente libro “Giù al Sud” il giornalista e scrittore Pino Aprile descrive la ricca sorgente del fiume Sele che sgorga dalle pendici del Monte Paflagone e sfocia dopo 64 km nel mar Tirreno, nel golfo di Salerno; la maggior parte delle sue acque, però, non vede la luce e neppure il Tirreno, ma viene captata per alimentare l’Acquedotto Pugliese. Caposele, prima della costruzione dell’acquedotto, era uno dei centri più industrializzati dell’Alta Irpinia proprio grazie al fiume Sele che alimentava mulini, tintorie e gualchiere per l’industria tessile. Oggi non è più così e i caposelesi, dopo più di un secolo, sottolinea ancora Pino Aprile, “un po’ di rabbia per quella ricchezza perduta ce l’hanno ancora”.
Terre bruciate dall’afa, ma ricche di sentimenti forti e tradizioni radicate in un passato glorioso, come si evince dai tanti miti fondativi delle varie città da Taras a Falanto per Taranto, dal cretese Japige, figlio di Dedalo, ideatore del Labirinto, per Bari, ad Idomedeo per Brindisi o ancora a Dauno per Foggia. Luoghi in cui è facile sognare grazie a “lu mar’, lu sol’ e lu vientu” (il mare, il sole, il vento) o ad una bella storia d’amore, come quella tra Kalimera e Tumulo.
Livio (storico romano 59 a.C.- 17 d.C.) riporta che un’incantevole fanciulla di nome Kalimera, sportasi dalle mura difensive della città di Taranto assediata dall’esercito romano, vide il console Tumulo, comandante delle forze nemiche. Scoccata la scintilla, i due giovani cercarono invano di incontrarsi; alla fine una notte Kalimera riuscì ad eludere la sorveglianza, aprì le porte e fece entrare Tumulo, favorendo tuttavia anche l’intrusione di soldati romani. I Tarantini respinsero gli invasori oltre la cinta muraria e catturarono Tumulo, mentre Kalimera, accusata di tradimento, fu condannata al rogo.
Si narra che Tumulo abbia osservato impotente per un po’ mentre la giovane fanciulla veniva posta su una pira al centro della città, ma che all’improvviso, divincolatosi dalle guardie, abbia raggiunto Kalimera. Abbracciati tra le fiamme per la prima volta, i loro cuori si fusero così per l’eternità. Ancora oggi in alcune vie di Taranto, quando soffia il vento, pare si sentano i loro sospiri d’amore…
Tanti autori nel corso dei secoli hanno cantato ed ammirato questi territori; oggi se ne parla essenzialmente nei mesi estivi, ma se ne sottolineano ugualmente le bellezze a partire dagli insediamenti protostorici ai reperti magno-greci, romani fino agli edifici religiosi e non in stile romanico o in ricco barocco con i colori che vanno dalle sfumature del carparo delle cave di Lecce, al tufo presente ovunque o alle pietre (chianche) di Trani.
Occorrerebbe pensare finalmente a questa terra come luogo di lavoro, studio e sviluppo, programmando investimenti a lungo termine e smetterla di considerarla semplice passerella paesaggistica per lo stilista di turno o per il magnate che organizza matrimoni da favola nelle splendide masserie, sparse su una regione che continua ad avere “sete” soprattutto di lungimiranti ed oculate politiche del lavoro, in linea con la tutela del territorio e del patrimonio artistico presente.
Adele Reale
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