MILANO – Una mostra particolare a Milano: simbolica, ma emozionante. Un allestimento che in linea con l’arte contemporanea trasmette un concetto, spesso testimonianza di fatti. In mostra ci sono abiti femminili, quelli di tutti i giorni che indossiamo noi donne: pantaloni, gonne, di lunghezza diversa, camicette, vestiti. Ogni donna cerca di valorizzarsi e mettere in risalto i pregi cercando di nascondere i difetti.
Ma cosa hanno di speciale questi abiti? Sono la riproduzione di abiti indossati da donne che hanno subito violenza. Gli abiti non sono naturalmente quelli veri delle vittime, ma hanno preso spunto dalle loro descrizioni che sono state costrette a rendere pubbliche. Il progetto nasce nel 2013 da un’idea di Jen Brockman, direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale di Kansas, e di Mary A. Wyandt-Hiebert, responsabile di tutte le iniziative di programmazione presso il Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas. L’iniziativa è stata importata in Italia dall’Associazione Libere Sinergie. L’idea nasce per sensibilizzare chi ancora dà attenuanti a chi compie un atto di violenza colpevolizzando le donne di essere ammiccanti, provocanti . L’intento è di spostare l’attenzione sulla vittima e non sul carnefice.
Le ultime sentenze in materia di stupro sono davvero allucinanti a giustificare atti violenti, efferati che non dovrebbero ammettere nessuna attenuante per chi commette un atto di prevaricazione; anche nell’ambito domestico la donna deve poter esprimere esplicitamente il consenso o meno ad un atto sessuale che implica il coinvolgimento, emotivo di entrambi. In Svezia è obbligo manifestare consenso esplicito altrimenti è comunque considerato stupro. Sta di fatto che a causare il danno con conseguenza per la donna disastrose dal punto di vista fisico e psicologico, non è l’abito ma la persona che compie lo scempio.
Angela Ristaldo
Nella foto di copertina, gli abiti in mostra a Milano
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